A che punto è il “nuovo” nucleare italiano, in attesa del Deposito unico per i rifiuti radioattivi
La parola a uno tra i maggiori esperti di energia del Paese, già docente di fisica dei reattori nucleari al Politecnico di Milano: Giovanni Battista Zorzoli.
Intervista
Intervenendo sulle pagine di greenreport, l’ad di Sogin Gian Luca Artizzu spiega che non potremo conoscere il luogo dove realizzare il Deposito unico nazionale per i rifiuti radioattivi prima di fine 2027. Si tratta di un’infrastruttura indispensabile per il Paese: cos’è possibile fare per favorirne l’accettazione?
«Prima di fine 2027 è un’affermazione che prolunga di altri tre anni l’ormai consolidata tecnica del rinvio per quanto concerne la localizzazione del Deposito. Dove stoccare le scorie nucleari è argomento “sensibile”, di cui si parla dal 2003, cioè da più di vent’anni. La mappa delle 51 aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito era pronta nel 2015, ma è rimasta secretata fino a dicembre 2023: una delle non molte informazioni riservate custodite così a lungo nel nostro Paese. Il merito, da parte del Mase, di avere finalmente deciso di rendere pubblica la mappa è stato però annacquato dalla possibilità, offerta agli enti territoriali con aree finora ritenute non idonee, di presentare la propria autocandidatura a ospitare il Deposito e di chiedere al Mase e alla Sogin di avviare una rivalutazione del territorio stesso, al fine di verificarne l’eventuale idoneità. Oltre tutto, una proposta assurda. A farsi avanti è stato infatti solo il Comune di Trino, che ospitava una centrale Pwr, risultato non idoneo.
È infatti assai difficile individuare proposte in grado di favorire l’accettazione del Deposito. Quando proposi di associarvi un Parco tecnologico, ero convinto che l’abbinamento potesse renderla meno ardua. Mi sbagliavo. Forse condizionato da questo flop, non sono riuscito a trovare una misura più convincente».
Ritiene che l’applicazione delle linee guida Isin per l’individuazione del sito possa essere rivista in senso meno restrittivo – ad esempio abbassando la quota degli ettari utili a realizzare il Deposito – in modo da ampliare la rosa dei possibili siti idonei?
«A parte l’effetto psicologico negativo (si ridurrebbero le garanzie) l’allargamento delle aree potenzialmente idonee richiederebbe un’indagine che sposterebbe in avanti di diversi anni l’aggiornamento della Cnapi».
Che cosa succederebbe se l’Italia non riuscisse a realizzare il Deposito?
«Secondo l’art.4 della Direttiva europea 2011/70/ del 19 luglio 2011, “ciascuno Stato membro ha la responsabilità ultima riguardo alla gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi generati nel suo territorio”, mentre secondo l’art. 11 “Ciascuno Stato membro assicura l’attuazione del proprio programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, comprendente tutti i tipi di combustibile esaurito e di rifiuti radioattivi soggetti alla sua giurisdizione e tutte le fasi della gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, dalla generazione allo smaltimento”. La Direttiva prevede anche relazioni periodiche alla Commissione europea sull’attuazione di quanto prescritto, ma non introduce sanzioni.
La mancata realizzazione del Deposito lascerebbe i rifiuti radioattivi dove sono attualmente stoccati in depositi temporanei, presenti nei siti degli impianti nucleari disattivati, degli impianti nucleari di ricerca e nei settori della medicina nucleare e dell’industria. Una dispersione che certamente non garantisce la massima sicurezza».
Il Comune di Trino aveva avanzato un’autocandidatura poi ritirata; adesso dove c’è l’ex centrale nucleare di Trino sorge il parco fotovoltaico più grande d’Italia. Eppure il Governo Meloni ha inserito nel nuovo Pniec italiano il ritorno dell’energia nucleare: è una prospettiva credibile?
«Il ricorso al nucleare viene giustificato nel Pniec perché “La letteratura scientifica internazionale è concorde nell’affermare che un sistema elettrico interamente basato su fonti rinnovabili, in particolare non programmabili, è possibile, ma non economicamente efficiente”. Una fake news contraddetta proprio dalla letteratura scientifica internazionale, dove sul tema esiste un animato dibattito. Per contro, il Pniec tace sui disastrosi sforamenti economici dei reattori Epr realizzati o in via di realizzazione in Europa, reattori progettati proprio per garantire tempi di realizzazione e costi certi. Che questo sia lo stato dell’arte lo conferma il costante declino del contributo del nucleare alla produzione mondiale di energia elettrica: da circa il 17%, massimo raggiunto negli ultimi anni del secolo scorso, a circa il 9% attuale».
Il Governo afferma di voler puntare sul “nuovo” nucleare, inteso come tecnologie di IV generazione e piccoli reattori Smr. A livello globale qual è lo stato dell’arte sullo sviluppo di queste opzioni?
«Il programma relativo ai reattori di IV generazione è stato varato più di vent’anni fa, nel 2002, e prevedeva lo sviluppo di sei sistemi nucleari innovativi, che dovevano essere progettati e realizzati a livello di prototipo entro il 2030. Il completamento degli impianti dimostrativi di due delle tecnologie era previsto subito dopo il 2020 e per il 2025 la fine della costruzione di tutti gli altri, ma nel 2013 è stata differita al 2030 la scadenza per quattro tecnologie, rinunciando a definire una data per le altre due. Attualmente fanno eccezione soltanto i due prototipi cinesi ad alta temperatura e raffreddati a gas, entrati in operazione all’inizio del 2022.
Che gli Smr, alternativa tecnologica sul tappeto dagli anni ’90 del secolo scorso, possano consentire di tagliare i costi, dato che le loro dimensioni ridotte (taglie fino a 300 MW) consentono di realizzare in fabbrica interi sottosistemi dell’impianto, riducendo notevolmente i tempi del cantiere, è un’ipotesi tuttora non dimostrata. In nessun paese è stato realizzato un Smr ad acqua in pressione da 300 MW, in modo da poterne confrontare il costo con quello di un Pwr di grande taglia. Non mancano invece i progetti abbandonati, perché risultati troppo costosi.
Riporto gli esiti di due di questi progetti. Dopo quattro anni dedicati allo sviluppo di Nuward, un “original concept” di Smr, e dopo avere completato il progetto, Edf, l’utility elettrica con le maggiori competenze ed esperienze di realizzazioni nucleari in Europa, a inizio luglio ha gettato la spugna. Le cause dell’abbandono sono le stesse descritte per altri progetti: sono emersi imprevisti problemi tecnici che hanno provocato lo sforamento dei costi accettabili per rendere competitivo il reattore. Una fonte di Nuward, la filiale di Edf incaricata del progetto, ha confermato all’agenzia Reuters che la decisione è arrivata dopo colloqui con potenziali clienti come Vattenfall, Cez e Fortum, che erano disponibili a investire nella realizzazione del progetto solo se fosse stato garantito un costo livellato dell’energia (Lcoe) compreso tra 70 e 100 euro/MWh. Anche l’azienda americana NuScale Power, tra i leader in questa tecnologia, che aveva avviato un progetto con la Utah Associated municipal power systems, lo scorso gennaio ha annunciato l’abbandono del progetto perché il costo per la costruzione del Smr era salito da 5,3 a 9,3 miliardi di dollari, cui corrispondeva una crescita del costo dell’energia da 58 a 89 $/MWh (+53%)».
L’Ipcc indica chiaramente nelle rinnovabili le tecnologie più efficienti sotto il profilo dei costi per contenere le emissioni di CO2, e la Iea documenta che in Europa continueranno a essere più convenienti rispetto al nucleare nel 2030 come nel 2050. Pensa che indicatori come il Valcoe della Iea, cui guarda con attenzione anche l’italiana Althesys, siano sufficienti per valutare anche tutti i costi di sistema (reti, accumuli, etc) all’interno di queste analisi?
«Non vedo difficoltà. Malgrado i sostenitori del nucleare affermino il contrario, basta inserire tra i costi anche quelli delle reti e degli accumuli per avere una valutazione adeguata».
Dalle fonti rinnovabili arriva già il 44% circa della produzione elettrica italiana, ma la loro economicità ancora non si sente sul costo delle bollette. La riforma del mercato elettrico sta andando nella giusta direzione? Ci sono altri strumenti da poter mettere in campo, come i Ppa?
«Il prezzo del kWh è attualmente determinato dal costo marginale dell’offerta più alta accettata, che per la maggior parte delle ore è quella dei cicli combinati, il cui costo marginale coincide col costo del gas. Le dichiarazioni iniziali della Commissione europea sulla riforma del mercato elettrico prevedevano l’introduzione di misure per far prevalere la contrattazione a lungo termine, principalmente mediante meccanismi di mercato (i Ppa) che riflettono il costo complessivo dell’energia, con i contratti per differenza a due vie a svolgere la funzione residuale: coprire l’eventuale quota di capacità non realizzata rispetto agli obiettivi previsti. In tal modo si sarebbe progressivamente marginalizzato il peso dei cicli combinati sul prezzo del kWh. La pressione congiunta degli interessi dei produttori di energia, dei Paesi con un elevato contributo di carbone nel mix produttivo (in primis la Polonia, ma anche la Germania) e della difesa francese del nucleare, ha invece partorito una Direttiva in cui l’attuazione della contrattazione a lungo termine sarà affidata ai contratti per differenza, adottabili anche per la produzione nucleare, mettendo fuori gioco i Ppa. Inoltre, si è conservato e reso strutturale il mercato della capacità, e, grazie a una deroga ai limiti previsti per le emissioni di CO2, fino al 31 dicembre 2028 potranno partecipare anche le centrali a carbone “virtuose”. Una riforma che conserva il “mercato” principalmente nella propria denominazione».
Come funzionano i contratti per differenza a due vie e perché, nell’ambito della riforma europea del mercato elettrico, affidargli l’attuazione della contrattazione a lungo termine non sarà sufficiente per far emergere in bolletta l’economicità delle fonti rinnovabili?
«Si tratta di contratti a lungo termine, assegnati tramite aste competitive bandite da un soggetto pubblico, a cui partecipano produttori di energie rinnovabili che dispongono del progetto di un impianto già autorizzato. Nei sistemi “a due vie” i produttori che vi partecipano presentano delle offerte dichiarando il prezzo al quale sono disposti a vendere la futura energia prodotta. Ai vincitori spetta una remunerazione predefinita, il cosiddetto strike price, garantita per un lungo periodo di tempo (normalmente 15 o 20 anni). Se il prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica è inferiore allo strike price, l’impianto riceverà un’integrazione pari alla differenza tra i due. Se superiore, l’impianto deve invece restituire la differenza. L’assegnazione mediante gare può stimolare egualmente la competitività, purché il numero dei partecipanti sia sufficientemente elevato, ma è un ente pubblico, usualmente sulla base di indirizzi del governo, a stabilire la frequenza delle gare, la capacità dei singoli bandi e la ripartizione tra le tecnologie, sostituendo decisioni politiche alla dinamica del libero mercato».
Lei è tra i firmatari dell’appello “100% rinnovabili network”. Quali sono i tempi e l’ammontare degli investimenti che ritiene necessari affinché le rinnovabili possano soddisfare tutta la domanda di energia primaria italiana?
«Poiché il nucleare produce energia elettrica, faccio riferimento al piano elaborato da “Elettricità futura”. Per rispettare l’obiettivo del RePowerEu occorre produrre l’84% di elettricità rinnovabile al 2030, rispetto all’attuale 45%, con un investimento complessivo di 300 miliardi di euro in accumuli, reti e rinnovabili. Poiché la neutralità climatica al 2050 impone il tutto rinnovabili elettriche al 2040, entro questa data, tenendo conto della sostituzione o del repowering degli impianti rinnovabili arrivati a fine vita, occorrerà un investimento aggiuntivo non inferiore ai 200 miliardi di euro».