Quante scorie sul nucleare! Il governo annuncia “mini reattori” inesistenti, i filonucleari spingono ma è tutto un bluff. Perché nessuno vuole nemmeno l’indispensabile Deposito dei rifiuti radioattivi
Il grande bluff dei nuclearisti? È la commedia della “scoria scomparsa” da ogni roboante annuncio del ritorno dell’energia atomica in Italia. Il rifiuto radioattivo non compare in nessuna delle road map abbozzate in qualche ufficio ministeriale, di università e aziende di Stato con finzioni di tecnologie, azioni, procedure, garanzie, competenze e soluzioni ma tutte destinate a restare sulla carta, perché in fondo nessuno scommetterebbe un cent sul nucleare in Italia, e nessuno seriamente sta provando e proverà a localizzare una centrale, e nemmeno l’ultimo modello di centralina atomica ancora a fissione.
E non lo farà nemmeno il governo più nuclearista di sempre, che non va oltre qualche annuncio a costo e impegni zero. Motivo? L’impopolarità, i costi, il rischio della fissione, ma soprattutto la questione irrisolta della localizzazione del “Deposito nazionale unico” dove smaltire le scorie nazionali in piena sicurezza.
Il Deposito sarebbe il punto di partenza, preludio a una seria e credibile – per noi preoccupante – pianificazione energetica nucleare. Dovrebbe essere l’obiettivo numero uno dei più incalliti nuclearisti, mettere in mostra le loro capacità nel posare la prima pietra, ma se te tengono alla larga; l’infrastruttura necessaria non figura in nessuna intervista, appello, documento, comunicato, e in nessun timing dell’operazione “Si Nuke”. Non è mai citato, eppure sarebbe la premessa per rendere credibile qualsiasi annuncio atomico, essendo indispensabile per ogni ri-pianificazione di centrali nucleari in casa nostra. E questa vistosa assenza fa crollare i castelli di sabbia nucleare, affossa i sogni di ripartenza, e senza la pre-condizione la questione nucleare è fuffa, chiacchiera. E questa gigantesca rimozione svela inesorabilmente due belle contraddizioni dei nostri filonucleari: la faciloneria dell’approccio ad una fonte di energia – bocciata due volte dal popolo italiano – e l’incapacità di avviare a soluzione un problema molto serio e molto sottovalutato.
L’eredità radioattiva italiana: quante scorie produciamo?
Eppure l’Italia, all’insaputa di tanti fan dell’atomo, continua a produrre ogni giorno rifiuti a bassa radioattività nei laboratori di ricerca scientifica, nelle lavorazioni con reagenti farmaceutici, per terapie mediche, radiografie industriali, sistemi di controlli micrometrici di spessore delle laminazioni siderurgiche, marker biochimici e persino nei parafulmini e rilevatori di fumo. La nostra produzione nazionale mensile è di circa 1000 metri cubi di scorie nucleari, soprattutto ospedaliere, e sono rifiuti pericolosi da stoccare e da riprocessare. L’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin) calcola almeno 16 tonnellate di rifiuti radioattivi a bassa intensità immagazzinate in una ventina di depositi sparsi nella penisola: dall’impianto nucleare Enea-Trisaia di Rotondella all’impianto Opec 1 e Triga Tc 1 della Casaccia, dai laboratori di ricerca Enea e Ispra di Cadi al “Laboratorio energia nucleare applicata” dell'Università di Pavia, dall’impianto “Fabbricazioni nucleari” di Bosco Marengo nell’alessandrino al centro di ricerca Enea-Saluggia in provincia di Vercelli.
Le condizioni di stoccaggio? Sono valutate da decenni da ogni ispezione scientifica come “non idonee”. Il sito di Saluggia, per dire, è in piena area alluvionale, a 60 metri dalla Dora Baltea, posto sulla falda dell’acquedotto del Monferrato, un rischio denunciato già dopo l’alluvione del 2000 dal fisico premio Nobel Carlo Rubbia allora presidente dell’Enea, con queste parole: “Lo sversamento di una parte di quei liquidi renderebbe necessaria l’evacuazione delle sponde del Po fino al delta, e terreni e falde adiacenti inutilizzabili per decenni”. Si tratta di 13 tonnellate di combustibile irraggiato stoccate nelle “piscine” del “Deposito Avogadro srl” realizzato a fine anni '70 all'interno della struttura che ospitava il reattore di ricerca. Dovevano essere messe in sicurezza negli impianti di riprocessamento francesi, senonché Parigi bloccò il loro trasferimento nell’attesa di avere garanzie e certezze sui tempi di costruzione del nostro Deposito, e ha annunciato che dal 2025 rientreranno in Italia 50 metri cubi di residui radioattivi prodotti dal riprocessamento di 235 tonnellate di combustibile inviate negli anni Oltralpe. E rientreranno anche le 1.630 tonnellate riprocessate negli impianti di Sellafield in Inghilterra. Ma se questo è l’andazzo italiano, tutto fa immaginare che le scorie resteranno all’estero, dove sono, strapagate e con penali molto salate da aggiungere agli oltre 240 milioni di euro finora spesi per lasciarle stoccate oltre confine. Il mancato Deposito ci lascia in eredità problemi irrisolti di insicurezza ambientale e sanitaria nello stoccaggio in Italia, e costi stellari per lo stoccaggio all’estero.
Il governo annuncia riduzioni di emissioni al 2030 con mini centrali per mini reattori nucleari a fissione, che però arriveranno forse solo “dopo il 2030”
Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica, area Forza Italia, nel suo intervento al recente seminario della green economy che Ermete Realacci con la sua Fondazione Symbola ha organizzato a Mantova dello scorso weekend, e poi nell’intervista al Sole 24 Ore di sabato scorso a Celestina Dominelli, ha dato il lieto annuncio. Lunedì, ha finalmente inviato a Bruxelles il nuovo Pniec, che sta per “Piano nazionale integrato energia e clima”, e contiene la pianificazione di politiche e misure nazionali per centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni killer dell’atmosfera al 2030, ed è molto centrata sull’energia atomica che però da oggi al 2030 non ci sarà, e non si vede nemmeno all’orizzonte.
Il ministro dell’Ambiente è un nuclearista convinto, come il Governo Meloni e buona parte dell’opposizione. Si dice sicuro del varo, “entro la legislatura”, di una cornice giuridica e legislativa con norme definitive che apriranno al gran ritorno del “nucleare sostenibile” nella programmazione del mix energetico nel medio e lungo periodo, bypassando i due referendum. Per riaprire il dossier chiuso a furor di popolo prima l’8 e il 9 novembre 1987 e poi il 12 e il 13 giugno 2011, impegna anche il giurista Giovanni Guzzetta nello sdoganamento del “nucleare di nuova generazione”. E proietta due futuribili scenari a energia nucleare: il primo, con capacità di produzione energetica “più conservativa” pari all'11% della richiesta di energia elettrica nazionale (8 gigawatt al 2050), e il secondo con il raddoppio a 16 gigawatt e “fino al 22% della richiesta di energia elettrica”. Immagina risparmi finanziari grazie a un "costo di 34 miliardi inferiore rispetto allo scenario senza nucleare". Spiega che questo scenario non è una alternativa alle rinnovabili, ma le integra per "abbassare le bollette di cittadini e imprese", glissando però sui costi della presunta operazione.
Alla ricerca dell’energia nucleare pulita
Lunedì Pichetto Fratin è volato a Cadarache, Francia, dove è in costruzione il più grande impianto al mondo col sogno dell’energia nucleare da fusione. È il reattore di ricerca “International thermonuclear experimental reactor” (Iter) che non produrrà scorie radioattive e dovrebbe risolvere i problemi energetici e climatici senza impatti per le prossime generazioni. Sicuramente è un obiettivo da raggiungere. Ma ad oggi non ci sono certezze sui tempi di realizzazione. Il cantiere supertecnologico è stato aperto come una sfida nel 2006, con 35 Paesi partecipanti – l’Europa, l’India, la Cina e gli Stati Uniti –, è diretto dall’ingegnere e scienziato genovese Pietro Barabaschi, e sta impegnando anche la nostra filiera industriale atomica. È il più ambizioso progetto scientifico mai avviato alla ricerca di una fonte energetica che non contribuisce al riscaldamento globale. I costi sono lievitati dai 5 miliardi di euro iniziali a oltre 20, e il traguardo della fusione nucleare che non emette gas climalteranti e non causa incidenti nucleari slitta per varie difficoltà, e oggi è fissato molto oltre il 2035, al punto che il ministro dell’Ambiente prevede la prima centrale a fusione in Italia nel lontano 2045, cosicché abbiamo di fronte solo i vecchi reattori a fissione.
Nel mondo sono 443 le centrali nucleari che, in 32 Paesi, stanno producendo 10.900 terawattora di energia elettrica, coprendo il 10% del fabbisogno energetico globale. Altre 58 centrali sono in costruzione in 17 paesi. In Europa, sono 128 in 18 Paesi membri, con una produzione di 450 TWh di energia elettrica annua per il 20% del fabbisogno energetico dell'Ue. Altre 6 sono in costruzione in 4 Paesi, e investono soprattutto Francia e Regno Unito.
Sogni di centraline atomiche modulari e semoventi a fissione
Pichetto Fratin, come il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, prova a rassicurare prevedendo “la ripresa dell'energia nucleare con piccoli reattori modulari a fissione”. Qua e là si sogna l’utilizzo di una ventina di Small modular reactors (Smr), centraline atomiche modulari a fissione e semoventi da 100-300 MW, da poter assemblare sul posto come fossero dei Lego, e da poter spostare. È la nuova frontiera degli annunci del nucleare italiano, buona per dibattiti scientifici e nelle feste di partito, ma se arriveranno sul mercato internazionale sarà non prima di una quindicina di anni, come prevedono i tecnici della Edison-Ansaldo Nucleare, che sta investendo 30 miliardi.
Il solo annuncio delle “mini-centrali” scalda però i cuori dei filonucleari. Ha fatto immaginare al ministro Salvini di poter pigiare il primo interruttore della centralina nucleare sotto casa perché: “Da milanese la prima la vorrei a Milano”. Peccato che anche questi micro-reattori siano a fissione e non a zero scorie, e producono sottoprodotti radioattivi da dover stoccare in sicurezza per millenni. Nessuno sponsor sa dire oggi quando costeranno, se e dove e quando saranno installati, ma “senza se e senza ma” intanto si schiera per averli – ma tra una ventina d’anni – anche il nuovo presidente degli industriali Emanuele Orsini.
Il fallimento della ricerca del sito del deposito di scorie
In ogni caso, torniamo da dove avevamo iniziato, e cioè dalle scorie di ieri, di oggi e di domani che devono e dovranno essere messe in sicurezza. Perché se tutti guardano al futuro del nucleare che verrà, nessuno si preoccupa del gran paradosso all’italiana della totale mancanza della premessa impiantistica per ogni ri-pianificazione nucleare. Troppo facile applaudire il ritorno all’energia atomica ignorando il “Deposito nazionale unico” delle nostre scorie radioattive. È questa la più grande contraddizione permanente che affloscia ogni ipotesi, perché sul piano politico e del consenso elettorale, la parola “Deposito di scorie” risulta più radioattiva delle scorie. E, infatti, non rientra in nessun programma elettorale, la sua localizzazione slitta anno dopo anno e governo dopo governo, e i siti possibili restano descritti solo nei file dei computer del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica.
Eppure è l’infrastruttura necessaria per poter custodire in piena sicurezza i rifiuti radioattivi prodotti da smantellamenti e bonifiche delle nostre 4 ex centrali dismesse ormai 37 anni fa, rispettando l’impegno preso in sede internazionale ed europea della sua costruzione. Dovrebbe avere una capacità di immagazzinamento pari a 78.000 metri cubi di scorie a bassissima e bassa attività, e di 17.000 metri cubi di scorie “ad alta attività”. Ma non troverete un appello, una mozione, una supplica filonucleare al governo affinché acceleri la pre-condizione del futuribile ciclo energetico atomico. Al contrario, basta il minimo accenno alla sua localizzazione per far fibrillare ogni area politica, e far saltare ogni ipotesi. Il governo, quindi, fa finta di nulla, i ministri prendono tempo, si traguarda il più avanti possibile nel tempo la sua costruzione al punto che oggi il generico riferimento è “non prima del 2032”, sempre che si individui la località che dovrà ospitarlo.
È un problema irrisolto dai tempi dell’energia nucleare travolta nel 1987 dall’onda referendaria dell’8 e 9 novembre. Sotto lo choc dell’esplosione del reattore 4 della centrale di Cernobyl all’1.23 del 26 aprile 1986, e dell’emergenza nube radioattiva, gli italiani votarono in massa per la chiusura delle nostre 4 centrali nucleari. L'allora presidente del Consiglio, il Dc Giovani Goria, prese atto e avviò la chiusura del ciclo del combustibile atomico che in Italia produceva energia dal 1963 per 1.500 MW di potenza installata nei reattori di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina, e Garigliano (Caserta). Il “No Nuke” venne poi ribadito sotto il Governo Berlusconi con il secondo referendum del 12-13 giugno 2011 che cancellò la previsione della “realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”. Due stop a stragrande maggioranza che rendevano però ancora più urgente la costruzione del Deposito che nessuno vuole.
Dalla carta dei siti alla localizzazione a sito di Trino Vercellese, dove il sì è oggi diventato un no definitivo
La localizzazione in un luogo di stoccaggio iper-sicuro dei nostri rifiuti radioattivi pericolosi e a media e bassa attività, è affidata alla Sogin, “Società gestione impianti nucleari”, nata nel 2003 in casa Enel e oggi del Tesoro, che opera dal 1999 per il decommissioning delle 4 centrali. L’autority Arera, a fine 2020, rilevava il costo di Sogin a oltre 4 miliardi di euro, di cui 2,2 per stipendi del personale (1.100 unità) e lavori eseguiti al 30% dei “programmi di smantellamento”, riversati in bolletta elettrica come “oneri di sistema”.
Ogni cronoprogramma per smantellare definitivamente le centrali, e per la decontaminazione dei siti, così come per il Deposito, viene modificato anno dopo anno. La Sogin, che pure ha notevoli capacità tecniche e operative, ha avuto problemi di governance interna ed è stata commissariata nel giugno 2022 dal governo Draghi, e dal 4 agosto 2023 ha un nuovo Cda. Durante il governo Berlusconi, nel 2005, aprì a Mosca una sede per gestire un contratto con la Russia di Putin per smantellare 117 sommergibili atomici. L’Italia rispose subito sì, pressata anche dalle richieste dei Paesi del G8, e si è impegnata per una gestione in sicurezza del combustibile radioattivo sovietico nel caotico passaggio del dopo Eltsin. Il costo del “soccorso” italiano resta top secret, ma si sa che almeno due navi per trasporto di materiale radioattivo furono costruite da Fincantieri, per un contratto da 360 milioni di euro. C’era però un secondo obiettivo del governo Berlusconi, ed era la vaga speranza di Palazzo Chigi di poter installare in Russia il Deposito di scorie Made in Italy. Ma Putin chiuse ogni porta e, con una legge, vietò l’importazione di scorie nucleari da altri paesi.
L’Italia per oltre due decenni ha cercato un sito sicuro e definitivo in un’area non vincolata, non a rischio sismico o vulcanico, non a rischio idrogeologico di frane o di alluvioni, molto lontana dal mare e anche dai corsi d'acqua e da falde, ben distante da aree industriali e urbane, e posta a una quota topografica bassa. Ma ogni sito ritenuto possibile si è sempre scontrato con rivolte istituzionali e di piazza, con barricate trasversali e blocchi stradali da Scanzano Jonico all’Alta Murgia, dalla Maremma toscana alla Sardegna, da Gravina a Matera. Tutti sempre uniti contro il Deposito fatto immaginare come se fosse una mega-centrale atomica. Dal 2002 giravano sottobanco planimetrie e mappe di aree potenzialmente idonee ad ospitarlo, indicate dopo lunghi e rigorosi check-up tecnico-scientifici affidati all’Ispra, e finalmente dal 15 marzo 2022 al ministero dell’Ambiente c’è la definitiva “Proposta di carta nazionale delle aree potenzialmente idonee”, frutto dell’ultima consultazione iniziata il 5 luglio 2021 e frutto anche dell’analisi di circa 600 osservazioni e proposte tecniche pervenute da Regioni e Comuni, associazioni e comitati, ordini professionali e aziende, Soprintendenze e privati cittadini.
La “Carta” indica 67 siti tra aree idonee e zone possibili, in 12 aree selezionate: 7 in Piemonte - in provincia di Torino a Rondissone-Mazze-Caluso e a Carmagnola, e in provincia di Alessandria con le aree Alessandria-Castelletto, Monferrato-Quargnento, Fubine-Quargnento, Alessandria-Oviglio, Bosco Marengo-Frugarolo, Bosco Marengo-Novi Ligure; 5 nel Lazio, tutte in provincia di Viterbo tra Canino-Montalto di Castro e Corchiano-Vignanello. Seguono 11 zone valutate come “possibili” a Castelnuovo Bormida-Sezzadio (Alessandria), nella Val d’Orcia senese tra Pienza e Trequanda, nel grossetano a Campagnatico, nelle Murge e nel materano, tra Gravina e Altamura, tra Matera e Taranto e a Laterza.
Essendo ogni area selezionata pronta a nuove proteste, al ministero hanno puntato sull’auto-canditura di qualche comune. E così si è fatto avanti Trino Vercellese, sito ex nucleare, in un Piemonte dove è stoccato il 73% delle nostre scorie, incentivato da una norma infilata nel decreto Energia che promette investimenti per 1,5 miliardi di euro per 4.000 occupati per 4 anni di lavoro in un’area di 110 ettari dove dovrebbe sorgere un Deposito “a matrioska” con 90 “celle” in calcestruzzo armato, che a loro volta conterranno 90 “moduli” per collocarvi 90 contenitori metallici per scorie da sigillare per tre secoli. Il sito sarà affiancato anche da un “Parco tecnologico” da 40 ettari.
È fatta? Macché! Colpo di scena, il 12 marzo scorso, l’unico Comune disponibile ha sconfessato il sindaco e ha ritirato l’autocandidatura con tanto di delibera votata all’unanimità dal Consiglio comunale, preceduta dall’ira e dal no secco anche dei presidenti delle Province di Vercelli e di Alessandria e soprattutto di Alberto Cirio, Presidente della Regione Piemonte. Bene bravi bis da tutte le forze politiche, le associazioni di categoria e ambientaliste e i comitati di cittadini, i vescovi e i sindacati. Tutti uniti a Trino e in Piemonte contro l’iniziale “insensata candidatura” ma tutti a chiedere di allontanare prima possibile da Trino i rifiuti radioattivi stoccati “in via temporanea” da oltre trent’anni nella ex centrale nucleare Enrico Fermi e nella vicina Saluggia.
Nella short list dei siti selezionati nella “Carta” peraltro Trino non c’era, escluso per rischio idrogeologico e per la vicinanza all’alveo del Po, e definito “insicuro” per i criteri stabiliti dall’Isin, coordinato da Maria Siclari direttore generale dell’Ispra. Fu quindi un colpo di mano, grazie ad una norma “ad comunem”, inserita nel decreto Energia, il Dl 181, che all’articolo 11 prevede la possibilità, anche per gli “enti territoriali le cui aree non sono presenti nella proposta di Cnai”, di avanzare l’autocandidatura chiedendo una verifica per la rivalutazione del proprio territorio. Tanto bastò per permettere al sindaco di Trino, con delibera comunale del 12 gennaio 2024, di farsi avanti.
Scomparsa l’unica candidatura, con tutti i Comuni indicati con aree idonee in 6 regioni contrari e pronti alla battaglia, il governo più nuclearista pur conoscendo le condizioni di rischio attuali dei nostri residui nucleari, pur sapendo che siamo inadempienti e in procedura d’infrazione europea, continua a rinviare, e i nuclearisti fanno finta di nulla.