Essere una foresta. La crisi climatica vissuta dal cuore dell’Amazzonia
Il villaggio di Xixuaú è composto da una manciata di palafitte che si stagliano sulle sponde di un affluente del rio Jauaperi, prima che a sua volta si tuffi nel rio Negro, uno dei principali tributari del rio delle Amazzoni, ovvero il fiume più lungo del pianeta. È al centro di quest’intricata rete di vene d’acqua – a 400 km da Manaus, la più grande città dell’Amazzonia – che raggiungiamo su WhatsApp Emanuela Evangelista. Biologa romana, classe 1968 con una lunga storia d’attivismo alle spalle, è insignita con l’Ordine al merito della Repubblica Italiana ed è parte della Species survival commission della Iucn; è appena rientrata dall’Italia, dopo la quinta ristampa in pochi mesi del suo Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta, dove si racconta per i tipi di Laterza. A unire le due voci al telefono c’è solo una connessione satellitare, troppo fragile per reggere il peso di una videochiamata.
«Tutte le cose che ci sembrano scontate in Occidente, qui sono difficilissime – esordisce Evangelista – La prima connessione a internet l’abbiamo attivata nel 2002, ma per vent’anni è stata lenta come la nostra ai tempi dei modem 56k. Negli ultimi anni le cose sono migliorate, con costi che sono caduti dall’insostenibile media di 400 euro al mese a 40. Oggi il web è accessibile anche nei villaggi più remoti».
Intervista
Merito della tecnologia Starlink di Elon Musk?
«Sì, so dell’articolo pubblicato dal New York Times che ha fatto scalpore in merito alla diffusione di internet – porterebbe dipendenza, pigrizia e isolamento sociale all’interno delle comunità indigene –, ma credo sia una lettura un po’ parziale. Siamo comprensibilmente preoccupati in Europa per l’effetto che internet e social media stanno avendo sulle nuove generazioni, come potremmo non esserlo qui? Si tratta di una società che, al contrario della nostra, non ha avuto neanche il tempo di abituarsi all’arrivo della tecnologia. Ovviamente porta con sé aspetti negativi, problemi che andrebbero affrontati assicurando educazione e istruzione insieme all’accesso a internet. Ma se dobbiamo colmare divari e disuguaglianze, strumenti di connessione sono indispensabili per ridurre i gap di accessibilità tra le varie società.
Internet cambia l’esperienza di vita in questi villaggi isolati ed è uno strumento di lotta importantissimo. Non avremmo mai potuto creare il Parco nazionale dello Jauaperi in cui vivo oggi, se non avessimo avuto vent’anni di pur fragile connessione a internet: la possibilità di comunicare è uno strumento di lotta, anche se adesso l’accessibilità orizzontale permessa da Starlink si porta dietro tutti i problemi comuni alle tecnologie che arrivano senza un adeguato terreno di preparazione. Si tratta di affrontare e risolvere questi problemi, non di bocciare una tecnologia con molti più aspetti positivi che negativi».
Come e quando è iniziata la sua seconda vita in Amazzonia, in un mondo così diverso dall’Italia in cui è cresciuta?
«È iniziata 25 anni fa, come iniziano queste cose nella vita. Senza programmarle. Se ci si lascia andare alla corrente, lei ti porta un po’ dove vuole. Ero una studentessa di biologia, quando un’ong con cui facevo volontariato lanciò un progetto per costruire una piccola scuola all’interno di un’isolata comunità amazzonica. È stato amore a prima vista. Per un decennio ho fatto la pendolare con l’Europa, poi 11 anni fa sono diventata stanziale in questa palafitta».
Da Manaus dista due giorni di navigazione fluviale, quando qui per fare 400 km in auto basterebbe qualche ora. Seguendo lo stereotipo, in Amazzonia la vita scorre davvero più lenta?
«È più lenta e al contempo più veloce, qui segue proprio un altro orologio. Tutto cambia velocemente, si vive con un forte senso di precarietà: la casa è precaria, la barca è precaria, il livello dell’acqua nel fiume sale e scende. Al contempo seguiamo ritmi naturali dettati dalle stagioni – quella in cui c’è la raccolta della noce, o quando si pesca meglio perché l’acqua è bassa –, che sono lente».
Perché ha deciso di restare?
«Da quest’esperienza di vita sono nate Amazonia onlus, che ha sede a Milano, e in Inghilterra l’Amazon charitable trust, con cui portiamo avanti un lavoro indirizzato su entrambe le due macro aree in cui possiamo suddividere l’Amazzonia, che in realtà è composta da tanti ecosistemi e società diverse: la prima è quella della foresta integra – l’Amazzonia forestale in cui mi trovo in questo momento –, l’altra è la cosiddetta Amazzonia convertita, dove la foresta è già diventata un’altra cosa alternandosi a campi agricoli e a una presenza umana più intensa.
Nell’Amazzonia forestale portiamo progetti pensati per creare opportunità di reddito legate alla bioeconomia, dal turismo comunitario al commercio sostenibile dei prodotti forestali. Nell’Amazzonia già sotto pressione da incendi e deforestazione lavoriamo invece sulla ri-piantumazione, sulla tutela della biodiversità e dunque alla creazione di corridoi ecologici, perché la foresta non riesce a sostenere alcune tipologie di vita se è frammentata. Si tratta di approcci completamente diversi, ma il comune denominatore è la lotta alla povertà: mettere in campo strategie per creare reddito alternativo a quello dato dal bracconaggio, dalla deforestazione, dalle monoculture. Che in ogni caso di sviluppo ne portano ben poco: lo stato del Maranhão, dove stiamo realizzando un corridoio ecologico dopo trent’anni di deforestazione, è uno dei più poveri di tutto il Brasile. È un modello di sviluppo insostenibile, ma è quello che ha sospinto l’Occidente».
Il Wwf stima che il 90% della deforestazione tropicale sia collegato all’alimentazione umana, con l’Italia – che ha chiesto il rinvio della regolamentazione Ue in materia – secondo maggior consumatore europeo di materie prime a rischio tra soia, olio di palma e carne bovina.
«Difatti il Brasile risponde a una domanda di mercato, per la quale Europa e Cina chiedono grandi quantità di soia per alimentare gli allevamenti intensivi, oltre a carni e pellame. Ovviamente nessuno è contento di acquistare prodotti frutto di deforestazione; la legge in teoria già dovrebbe permettere una tracciabilità dei prodotti, che però non è così semplice da garantire senza un rafforzamento dei controlli sul territorio».
Oltre a questi problemi storici che gravano sull’Amazzonia, negli ultimi anni la crisi climatica ha portato anche la siccità in quella che è sempre stata una terra d’acqua. Come viene vissuta dai locali questa tendenza?
«Con grande dramma e preoccupazione. Nel 2021-22 abbiamo avuto allagamenti straordinari, villaggi fluviali sommersi e raccolti persi. Dopo la fase delle inondazioni è arrivato El Niño, che è ovviamente un fenomeno periodico ma che non aveva mai creato una situazione drammatica come la siccità del 2023, e quest’anno sta andando ancora peggio lungo molti fiumi come il rio Negro, il Tapajós, il Madeira. In Europa è difficile immaginare le conseguenze, perché non si tratta “solo” di una crisi ambientale: qui senz’acqua nei fiumi spariscono le vie di comunicazione, i villaggi restano isolati, le merci non possono circolare. All’inizio si compensa con la pesca, che diventa più facile praticare con meno acqua, ma man mano che la temperatura si alza l’ossigeno disciolto nell’acqua cala e i pesci muoiono».
Con le dovute proporzioni, sembra di osservare allo specchio i problemi italiani. Nel 2021-22 il fiume Po ha perso 70 mld di tonnellate d’acqua per la siccità, mentre oggi quella padana è praticamente una palude e in Sicilia c’è compresenza di siccità e alluvioni; anche a Orbetello, in Toscana, quest’estate c’è stata un’enorme moria di pesci a causa dell’ipossia. In Amazzonia almeno sul fronte deforestazione è cambiato qualcosa, col ritorno del Governo Lula? Il Wwf informa che quest’anno è bruciata un’area vasta come la Svizzera.
«Con l’arrivo del Governo Lula i tassi di deforestazione si sono dimezzati, rispetto alla fase incontrollata durante l’esecutivo Bolsonaro, ma sono raddoppiati gli incendi. Sembra controintuitivo, ma gli incendi sono sia causa sia conseguenza della deforestazione. Quando la deforestazione avanza la foresta perde la sua umidità intrinseca, più tagli e più si avvicina il punto di non ritorno: il collasso arriva se la superficie forestale diminuisce tanto da non poter più generare l’umidità e dunque le piogge che ne garantiscono la sopravvivenza. Nell’ultimo anno Lula ha usato il pugno duro contro l’estrazione illegale d’oro e la deforestazione, e il crimine ha risposto mettendo a ferro e fuoco il Paese. Non brucia soltanto l’Amazzonia, ma l’intero Brasile da San Paolo in su. Eppure il Parco nazionale dove abito sta riuscendo a resistere, i popoli della foresta la difendono come possono e lasciano spazio alla speranza: mostrano che l’Amazzonia può restare in piedi».
Le popolazioni indigene vivono una vita da sempre scandita dal continuo alternarsi delle stagioni, mentre oggi devono fare i conti con una crisi climatica che non hanno provocato. Come se la spiegano, le hanno trovato un posto nella loro cosmogonia?
«I leader indigeni come Davi Kopenawa Yanomami e Ailton Krenak ne parlano come il risultato di togliere da sotto il suolo quello che appartiene al sottosuolo, dal soprassuolo quello che vi abita».
I combustibili fossili stanno nel sottosuolo, e volendo fare un parallelismo occidentale, anche l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) spiega che per arrivare a emissioni nette zero dobbiamo (e possiamo) fermare ogni nuovo progetto di estrazione gas, petrolio, carbone.
«Nella cosmogonia indigena ci sono equilibri da rispettare, ognuno partecipa dal proprio posto alla grande rete della natura. Non esiste un re nella foresta, non c’è mai stato. Ci sono tanti esseri – quelli che noi chiamiamo animali, piante, funghi – che sono anche spiriti, ed esistenze. Noi facciamo fatica a definirle, mentre per loro sono ovvietà: il fiume, la montagna, una roccia. Esistono, non li puoi negare. E hanno un diritto all’individualità. I Krenak chiamano il fiume dove vivono con una parola la cui traduzione è nonno, dunque il fiume non solo è un individuo ma un loro antenato.
Si tratta di una visione che quando viene assimilata si traduce in comportamenti, diversi dai nostri. Quando nasce un bambino, la prima cosa che fanno – come faremmo noi – è farlo vedere ai nonni: viene immerso nel fiume, viene battezzato diremmo noi, e inizia così una relazione. Crescendo il bambino non farà mai del male al proprio nonno, magari riversando materiali tossici nel fiume, e al contempo sa che il nonno lo proteggerà dai flutti quando navigherà, gli fornirà del pesce quando avrà fame. Si tratta appunto di una relazione, fondata sul rispetto reciproco».
In Occidente da due decenni è in corso quello che oggi viene battezzato “Rinascimento psichedelico”, con la diffusione di fonti visionarie – tra le quali l’ayahuasca e la jurema, provenienti dall’Amazzonia – che, si è scoperto, tra le altre cose possono avere un ruolo anche nell’aiutare l’essere umano a riconnettersi col resto della natura. C’è cognizione di questa tendenza da parte degli indigeni, viene vissuta positivamente o come appropriazione culturale?
«Dove vivo non c’è alcuna percezione di questa tendenza in corso in Occidente. Ho sentito parlare dell’ayahuasca e so che i popoli della foresta hanno sempre fatto uso di molte pozioni per indurre alterazioni nello stato di coscienza, ma nelle regioni dell’Amazzonia che ho frequentato non ho mai incontrato l’uso di piante visionarie; è dunque un argomento al quale non sono riuscita ad avvicinarmi tanto. Penso siano la materializzazione concreta di un approccio di vita diverso dal nostro: secondo me, se c’è una pozione magica sta nella visione di questi popoli di considerarsi parte di un’unica rete naturale, di cui non si vedono come semplici spettatori esterni. Krenak spiega che siamo noi occidentali ad aver inventato la parola astratta ambiente, che usiamo per descrivere qualcosa di esterno a noi. Per loro è inconcepibile, gli indigeni non lo capiscono. La natura non è qualcosa fuori da loro, ne sono parte. O meglio, sono la stessa cosa. Non dicono io abito in una foresta, ma io sono una foresta. Sono due cose molto diverse».