
Lupi e orsi, ecco cosa ne pensano gli allevatori trentini: «Dobbiamo imparare a coesistere»

Un mondo variegato e complesso, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra spinte globali e istanze locali, tra libero mercato e tradizione. Un mondo che per non soccombere deve necessariamente rimettersi in gioco, tentando di mantenere pratiche virtuose frutto del tempo ma reinterpretandole alla luce delle nuove sfide. Un comparto che, tra le altre cose, deve fare i conti anche con il ritorno dei grandi carnivori (di cui diamo conto nell’articolo “L’impatto dei grandi carnivori sulla zootecnia” di questa edizione de I Fogli). Di tutto questo e di altro ancora abbiamo parlato con Giacomo Broch, presidente della Federazione Provinciale Allevatori, fondata nel 1957, che raccoglie e rappresenta circa 1.100 allevatori trentini e i loro quasi 100 mila capi di bestiame.
Intervista
Partiamo proprio da lupo e orso. Qual è il sentire del mondo dell’allevamento trentino rispetto ai grandi carnivori? C’è la consapevolezza che si possa riuscire a coesistere, pur con sforzi aggiuntivi che andrebbero messi in campo dall’amministrazione pubblica, oppure viceversa c’è un atteggiamento di completo rifiuto alla presenza di lupi e orsi?
La base, come è ovvio, parte da una posizione di totale contrarietà di fronte a questi animali, che vengono vissuti come una nuova presenza – più che come un ritorno – foriero solo di problemi e negatività. Sono però convinto che negli anni siamo riusciti a far passare un messaggio diverso, partendo da un punto fermo: che indietro non si torna. E che, se dobbiamo imparare a coesistere, il muro contro muro non solo non porta risultati, ma addirittura amplifica le difficoltà e impedisce di trovare delle soluzioni. Noi abbiamo la fortuna di trovarci all’interno di un “sistema”, il sistema trentino, e quindi dobbiamo imparare a ragionare e a interagire con gli altri attori per trovare i giusti equilibri. Non nascondo che molti allevatori vorrebbero tornare al “punto zero”, ma l’approccio della Federazione sta lontano dagli estremismi e usa quello che io definirei buon senso. Detto altrimenti: non rifiutiamo la presenza di orsi e lupi ma piuttosto chiediamo di intervenire in modo puntuale e rapido dove si manifestano i problemi, dove ci sono attacchi ripetuti, e dunque sugli esemplari “problematici”. Questo senza però dover rimettere tutto in discussione ogni volta. Il lupo non deve entrare in stalla, mi pare chiaro: se lo fa, c’è qualcosa che non va e quindi va rimosso: un singolo esemplare per il bene dell’intera popolazione.
Parlava di sistema trentino: quanto pensa che la politica potrebbe aiutare a trovare una via per la coesistenza?
Faccio un passo indietro, guardando alla situazione più generale. Il Trentino è un contesto molto particolare: da noi non esiste una sola zootecnia, non esiste un solo modello zootecnico. Quello che si fa in Primiero, per esempio, è molto diverso da quello che si fa nel Lomaso: è una questione prima di tutto di orografia, di spazi a disposizione e, a cascata, di grandezza delle aziende e di misure di salvaguardia. La difficoltà è far capire alla politica che bisogna saper interpretare le esigenze delle aziende, caso per caso. Tenendo bene in mente che salvare una azienda in Primiero o in Val di Sole può voler dire salvare un territorio, perché si salvaguarda la vivacità di un contesto sociale, di un paese. Il mio caso personale è emblematico: se i miei genitori non avessero investito nell’azienda che oggi è diventata mia, resistendo al fortissimo richiamo dell’industria e della città, oggi Passo Cereda, a 1400 metri di quota, non sarebbe più una zona aperta: invece dei pascoli ci sarebbero boschi. Detto in altre parole, il destino di una piccola azienda può avere ricadute molto più ampie da quelle che toccano l’aspetto meramente economico. In molti contesti potremmo dire che rappresenta un presidio di tipo sociale e ambientale. Ben inteso che con questo non voglio assolutamente dire che oggi servono solo le piccole aziende: viceversa, abbiamo bisogno del latte delle grandi aziende del Lomaso e della Valsugana, ma anche della zootecnia di presidio. In un territorio variegato come quello trentino, i due modelli – produttivo e di presidio – devono coesistere, perché servono entrambi.
Torniamo al tema dei grandi carnivori: come si inserisce in questa complessità? Mettendo sul piatto, accanto alle aziende, cioè ai professionisti di cui abbiamo appena parlato, anche gli hobbisti, ossia quegli allevatori per cui capre o di pecore rappresentano una passione o una tradizione ma non una fonte di reddito.
Iniziamo col dire che gli hobbisti, che sono fuori dalla Federazione e ininfluenti dal punto di vista economico, rivestono un ruolo fondamentale dal punto di vista territoriale perché tengono pulite quelle “macchie” che al professionista non interessano. Si tratta cioè di micro-realtà dal valore aggiunto molto elevato in termini ambientali, che contribuiscono al mantenimento del paesaggio ed evitano il rimboschimento al di sopra dei paesi: un fenomeno molto evidente per esempio in Primiero. Il problema è che sono proprio loro a subire maggiormente l’impatto dei grandi carnivori. Per più motivi. Un capo predato è ininfluente dal punto di vista economico per un professionista, mentre è un dramma per un hobbista. Stesso discorso per la prevenzione. Tutto sommato, si tratta di misure affrontabili per un professionista, che ha molti capi e più risorse sia economiche che di tempo a disposizione, mentre non lo è dall’hobbista. Per fare un esempio pratico, la Provincia di Trento fornisce in comodato gratuito una rete elettrificata ogni 30 capi, quindi un hobbista che ha una decina di pecore e qualche capra ne riceve una sola, mentre ne avrebbe bisogno quattro o cinque perché ha meno tempo a disposizione e la sera prepara il pascolo per la mattina, oltre al fatto che deve fare tutto da solo. Idem per i cani da guardiania, che sono una opportunità per i transumanti, ma solo per loro. Insomma, se la politica non si dà da fare per fornire soluzioni agili e adeguate, prima o poi l’hobbista abbandonerà l’attività, con le conseguenze a cui accennavamo prima.
Passando ai professionisti, cioè alle aziende strutturate che vivono di zootecnia, va chiarito che oggi per gli allevatori l’alpeggio è un costo netto. Tradotto: le malghe rischiano di diventare un pezzo di storia che racconteremo ai nipoti. Non è una questione legata ai grandi carnivori, che sono al massimo uno dei fattori di criticità, se non addirittura una scusa: il problema sta nella mancata redditività. Gli animali in malga perdono peso, partoriscono ed entrano in produzione dopo, si disperdono o vengono predati, quindi oggi, con le strutture moderne di cui disponiamo, gli animali stanno meglio in stalla. Provocatoriamente però, o forse paradossalmente, questo è più un problema che tocca il comparto turistico piuttosto che il mondo dell’allevamento, perché l’allevatore può riorganizzare la sua attività anche senza andare in malga, mentre il turismo perde un elemento identitario forte. Quindi si sta correndo ai ripari.
In che modo?
Ho accennato prima al sistema trentino: intendevo proprio questo. Si è perso tanto tempo, sottovalutando la situazione, ma oggi stiamo facendo un ottimo lavoro da una parte con Trentino Marketing, e dall’altra con la Fondazione Mach. Questo sia dal punto di vista della formazione che dei controlli sanitari e della formazione legati all’alpeggio. Una sinergia che fa ben sperare ma alla quale mancano ancora dei tasselli. Quali? Beh, se la malga ha diritto di esistere in quanto fornisce servizi ecosistemici, oltre a quelli zootecnici, allora le amministrazioni proprietarie – Comuni, PAT, etc. – non devono vederla come una fonte di reddito proprio, diretto. Se si è deciso a livello di sistema che tutelare le malghe significa tutelare il paesaggio, allora gli enti pubblici possono e devono soprassedere sui 20/30 mila euro che attualmente chiedono per la concessione d’uso, perché oltretutto ci si muove in un contesto che è molto oneroso per gli allevatori.
Un nuovo paradigma, dunque, per salvare le malghe in un mondo che cambia. Ma non sarebbe dunque il caso di prendere in considerazione nuovi modelli organizzativi anche per venire in aiuto agli hobbisti di cui parlavamo prima?
Sono d’accordo. Va cambiato il modello, e anche gli hobbisti devono accettare di cambiare. Per esempio in Primiero stiamo tentando di recuperare una malga oggi in stato di abbandono e creare una iniziativa pilota di aggregazione di piccoli proprietari: dare vita ad alcune recinzioni fisse all’interno del pascolo e raggruppare i capi, in modo da poterli gestire – e proteggere – in modo efficace. Una forma di aggregazione che ovviamente non potrà essere esportata ovunque, ma piuttosto a macchia di leopardo solo nelle zone idonee. Una sorta di “modello Heidi e Peter 2.0” che preveda che tutti gli animali di un paese vengano dati in gestione ad un pastore che se ne occupa in modo complessivo e professionale. Siamo nel 2025, è inutile continuare a pensare che il mondo deve rimanere “come è sempre stato”: trovare nuove strade, a mio modo di vedere è l’unica soluzione per evitare la scomparsa.
Per concludere, gli strumenti di prevenzione contro lupo e orso: come sono visti e vissuti dagli allevatori e cosa fa la Federazione in questo contesto?
I mezzi di prevenzione non sono visti bene dalla categoria, è inutile negarlo. Noi come Federazione siamo convinti che diano risultati in alcune situazioni, ma siamo ben consci che non esistano soluzioni efficaci in ogni contesto e che alcune realtà siano veramente difficili, direi impossibili, da proteggere. Quindi i mezzi di prevenzione non possono essere calati dall’alto, né rappresentare l’unico rimedio a disposizione. Nel dettaglio, con gli ovicaprini la difesa può essere semplice, soprattutto se si ragiona in un’ottica di aggregazione, come dicevamo poco fa. Coi bovini, invece, dipende: per esempio nella zona della Tognola, dove porto le mie manze, lo strato di suolo è talmente esiguo che piantare recinzioni è praticamente impossibile, mentre a Passo Rolle la Provincia ci ha finanziato una recinzione fissa, a sette fili, bella ed efficace. Noi ci crediamo e ci investiamo e chiediamo ai nostri associati di fare altrettanto: come Federazione – lo dicevo al principio – siamo per un approccio più riflessivo e meno “di pancia”, che deve passare per forza di cose attraverso l’utilizzo dei mezzi di prevenzione. Ma, se il problema non si risolve, perché un lupo continua a fare predazioni, non ci si può fermare lì.
Quest'articolo è stato pubblicato col titolo Allevamento 2.0 – Intervista al presidente della Federazione Allevatori Trentini, Giacomo Broch ne I nuovi fogli dell'orso del Parco naturale Adamello Brenta
