L’impianto di riciclo pannoloni a Capannori è sostenibile? Lo spiega Legambiente
Capannori (LU) è il simbolo toscano e non della buona raccolta differenziata, che nel 2022 ha raggiunto (dato certificato Arrr) l’87,5% contro una media regionale del 65,68%. Ma senza impianti industriali per gestire i rifiuti suddivisi in tanti sacchetti colorati, lo sforzo della differenziata diventa inutile.
E sul punto la partita si fa assai più ostica, anche per Capannori: basti osservare che per vent’anni non è riuscito a localizzare un impianto per riciclo dei rifiuti organici.
Oggi il Comune che ospita il cuore nevralgico dei rifiuti zero di tutta Europa, il cui approccio comitatista contro gli impianti di gestione rifiuti – recupero energetico e smaltimento in particolare – ha evidentemente fatto scuola, si trova oggi a patire feroci proteste contro un progetto per il riciclo di pannolini e pannoloni: i prodotti assorbenti per la persona (pap).
Il comitato per il “no” millanta scenari apocalittici per il “primo impianto al mondo” di questo genere, quando in realtà un impianto sperimentale per il riciclo del pap è stato inaugurato a Treviso nel decennio scorso, e nel 2019 il ministero dell’Ambiente ha emanato il primo decreto End of waste dedicato a questa categoria di rifiuti.
A riaccendere la luce della razionalità ci ha pensato al solito Legambiente, ricordando che l’impatto zero non esiste ma che quello in ipotesi è più che sostenibile per le persone quanto per l’ambiente.
«Nel caso specifico – argomenta Andrea Minutolo, responsabile scientifico Legambiente – avvenendo il trattamento dei materiali in luoghi chiusi, controllati, depressurizzati, in maniera che la componente odorigena possa essere circoscritta all’interno degli edifici predisposti al loro trattamento e, successivamente, convogliata in filtri che ne abbattono il carico, ciò implica che l’impatto è da considerarsi praticamente nullo sui possibili ricettori all’esterno dell’impianto».
A maggior tutela della cittadinanza, a realizzare l’impianto in questione sarà una realtà completamente pubblica, ovvero Retiambiente in collaborazione con Ascit; a testimoniare la bontà del progetto c’è anche la fonte del finanziamento, dato che le risorse necessarie sono in arrivo dal Pnrr senza gravare sulla bolletta rifiuti dei cittadini.
«L’economia circolare si nutre di visioni, di obiettivi e di valori, ma per essere attuata necessita di impianti – spiega il presidente di Legambiente Toscana, Fausto Ferruzza – Ciò nondimeno essi, una volta calati sul territorio, incontrano spesso vita difficile. Per disinnescare paure, preoccupazioni (anche legittime) e diffidenze, occorre la massima trasparenza e il miglior coinvolgimento dei cittadini. Legambiente, da sempre sostenitrice di un approccio rigorosamente basato sull’ambientalismo scientifico, richiama l'attenzione sulla necessità di rendere pubblici gli approfondimenti tecnici sul progetto, tanto da poter immaginare sin d’ora un processo partecipativo sull’impianto di Salanetti. Il confronto è il miglior punto di partenza e il miglior antidoto per uscire dalla logica del NO a prescindere».
Iniziamo dunque dai numeri. Ogni anno, 8,5 milioni di ton di rifiuti pap finiscono in discarica o a termovalorizzazione, in Europa. Ben 900mila ton all'anno solo in Italia, contando che il pap pesa oltre il 4% sui quantitativi dell’indifferenziato; al contempo, però, nel nostro Paese già oltre 16 mln di cittadini hanno accesso a servizi di raccolta differenziata pap, con una tendenza in fortissima crescita.
Senza impianti a supporto, questi rifiuti non potrebbero tornare ad essere un valore, e dunque gli sforzi dei cittadini sarebbero inutili. Ma attenzione, perché neanche il riciclo è la panacea di tutti i mali: anche questo, come ogni processo industriale, ha i suoi scarti.
Per portare a riciclo circa 14,3 mln ton di rifiuti urbani, il sistema Italia genera circa 9,5 mln ton di materiali non riciclabili meccanicamente – ovvero dieci volte tanto tutti i rifiuti pap – che senza alternative impiantistiche di prossimità sono destinati alla discarica o peggio all’export, alimentando il turismo dei rifiuti urbani e speciali. Allargando il quadro d’osservazione anche a questi ultimi, gli scarti dell’economia circolare raggiungono quota 43,1 mln ton/anno.
Che fare di questi rifiuti? Scendendo nella gerarchia europea di gestione, si trovano il recupero energetico e infine lo smaltimento in sicurezza in discarica. Per limitare il ricorso a quest’ultimo scalino della gerarchia occorre dunque aumentare il recupero di energia: i termovalorizzatori rientrano nel modello europeo ma sono ormai invisi a larghissima parte della cittadinanza – nonostante secondo Ispra e Utilitalia ne servano di nuovi –, dunque si guarda a nuove strade a cavallo tra riciclo e recupero energetico.
Quelle percorribili, superato l’equivoco dei Tmb, partono dal riciclo chimico fino all’ossidazione termica, in modo da calibrare la risposta più efficiente (e socialmente accettabile) sui vari territori. Coerentemente, due anni fa a Empoli sempre Legambiente sosteneva la realizzazione, poi naufragata, di questi impianti. Allora i rifiuti zero stavano però dall’altra parte della barricata.