«L'Europa è pronta per una rinascita nucleare?». La risposta è no, leggendo l'ultimo rapporto S&P
«L’Europa è pronta per una rinascita nucleare?». La domanda messa in primo piano dal rapporto S&P global consente di gettare nuova luce sul dibattito che, soprattutto in Italia, sta acquisendo sempre maggior spazio. La riapertura delle centrali sul nostro territorio viene annunciata a più riprese da governo e anche Confindustria, nonostante la premier Meloni nell’ultima uscita su questo tema, alla Cop29 di Baku, abbia fatto riferimento a una tecnologia che potrà essere forse operativa soltanto dopo il 2050 («il nucleare da fusione che potrebbe produrre energia pulita, sicura e illimitata, e l’Italia è impegnata in prima linea sul nucleare da fusione») e nonostante da più parti venga costantemente sottolineato che quella nucleare non è un’opzione energetica concreta per il nostro Paese.
Ora, il rapporto S&P fornisce ulteriori dettagli sul perché un ritorno dell’atomo, per noi, non è la strada giusta da perseguire. E non per motivi legati alla realtà italiana - a partire dal fatto che ancora non è stato individuato un luogo per il deposito nazionale delle scorie che tra l’altro, se tutto va bene, per ammissione del ministro Pichetto Fratin sarà operativo soltanto dal 2039 - ma per motivi che riguardano l’intero panorama europeo.
La conclusione a cui arriva l’indagine condotta dalla società statunitense è infatti tanto dettagliata quanto chiara. Punto primo: «Dall’attuale limitata attività di installazione dell’energia nucleare, con circa 3 GW in corso, l’Europa sembra pronta ad accelerare di nuovo, ma solo nei paesi che già gestiscono reattori nucleari. Ciò avviene in mezzo all’aumento delle tensioni geopolitiche, ai problemi di sicurezza energetica, all’invecchiamento della flotta nucleare esistente e all’aumento della necessità di energia elettrica stabile e a basse emissioni di carbonio per soddisfare le ambizioni di elettrificazione e decarbonizzazione». Ma è soprattutto il secondo punto evidenziato dalla ricerca che dovrebbe far riflettere chi in casa nostra vuole investire sul nucleare: «Secondo le nostre stime, il costo totale per la nuova costruzione potrebbe raggiungere i 15 milioni di euro/MW, ben al di sopra della maggior parte delle altre fonti di energia pulita. Questa stima tiene conto in particolare degli overnight costs (ovvero i costi del progetto se non si sostenessero interessi durante la costruzione, ndr), del costo del capitale e del tempo, tutti fattori che possono comportare variazioni significative e aumentare l’imprevedibilità». Inoltre, se «la redditività economica dipende da schemi di remunerazione dedicati, da meccanismi di condivisione del rischio e dal sostegno del governo», c’è da dire che per quanto riguarda l’Italia per ora questo sostegno si è rivelato fatto soltanto di estemporanei spot. Più in generale, si legge nel report realizzato da S&P, «la necessità di disporre di quadri di riferimento solidi è esacerbata dalle ingenti esigenze di finanziamento degli investimenti iniziali di ciascun progetto e dai precedenti negativi di significativi sforamenti dei tempi e dei costi che abbiamo osservato in progetti recenti». In ogni caso, è la conclusione del rapporto, «qualsiasi nuova costruzione nucleare richiederà anni per diventare operativa e collegarsi alla rete, creando tensioni continue sui dati economici previsti e sulle future dinamiche del mercato dell’energia. La gestione di queste tensioni sarà fondamentale per attirare gli investitori e proteggere i consumatori».
Leggendo tra le righe, si capisce che chi ha lavorato al testo non è pregiudizialmente contrario al nucleare, e anzi viene sottolineato che «è l’unica fonte di energia continua a basse emissioni di carbonio espandibile e comprovata su larga scala (poiché la capacità dei serbatoi per l’idroelettrico è limitata dalla natura)», che «l’Unione europea attualmente dipende dall’energia nucleare per circa un quinto della sua produzione di elettricità» e che il Parlamento europeo ha anche approvato la classificazione del nucleare come «verde» nell'ambito della tassonomia dell’Ue per attività sostenibili. Ma rimane un punto fermo: il cosiddetto Nnb, ovvero il «nuclear new build» è «costoso, rischioso e richiederà finanziamenti sostanziali».
La strategia del nucleare di nuova costruzione in Europa è insomma da rivedere. Compresa quella di quanti, come il nostro governo, puntano sulla tecnologia degli small modular reactors (Smr). Si legge infatti nel titolo del capitolo che il testo messo a punto dalla società statunitense dedica ai piccoli reattori a fissione: «Gli Smr non sono ancora un’alternativa o un complemento al nucleare su larga scala». Ed ecco il dettagliato testo che spiega questo titolo: «Gli Smr sono definiti come piccoli reattori nucleari con una dimensione unitaria tipica di 300 megawatt-elettrici (MWe), essenzialmente piccole centrali nucleari con un design semplificato dei reattori e una maggiore flessibilità per soddisfare la domanda. Poiché richiedono un investimento di capitale inferiore e sono progetti meno complessi del nucleare su larga scala, sono considerati un’attraente fonte di energia decarbonizzata nel futuro mix energetico di un numero crescente di paesi europei, tra cui Francia, Svezia, Italia, Repubblica Ceca, Romania, Baltici e Polonia. La domanda sta crescendo, ma la tecnologia non è ancora matura né sviluppata su larga scala. In modo incoraggiante, il 30 luglio 2023, Rolls-Royce SMR e l’Office for Nuclear Regulation (ONR) del Regno Unito hanno detto in dichiarazioni separate che il reattore ad acqua pressurizzata da 470 MW di Rolls-Royce SMR è entrato nella terza e ultima fase del processo di valutazione del progetto generico del Regno Unito. Tuttavia, la revisione del progetto annunciata nel luglio 2024 da Nuward, società controllata da EDF, il più grande prototipo europeo di Smr, sottolinea gli ostacoli di una tecnologia che è ancora in fase di progettazione di base/dettagliata. Al momento della stesura di questo rapporto, quattro Smr sono in funzione a livello globale (solo in Russia e Cina), mentre quattro sono in costruzione e nessuno di essi si trova in Europa».
Un’ultima considerazione emerge in tutta evidenza dal report: al di là di fattibilità e tempistiche, anche dal punto di vista del costo livellato dell’elettricità (levelized cost of electricity, Lcoe) la strategia di puntare sull’atomo non paga: «La mancanza di competitività dei costi di costruzione della tecnologia nucleare in Europa è evidente rispetto ad altre tecnologie e ad altre regioni», è il titolo di quest’altro capitolo. Che si apre così, fornendo poi tutta una serie di calcoli a dimostrazione di quanto affermato: il costo livellato dell’elettricità «Lcoe è più alto per il nucleare, evidenziando la mancanza di competitività dei costi di costruzione in Europa». E anche guardando ai costi di sistema, stimati dall'Agenzia internazionale dell'energia (Iea) attraverso il Valcoe, il discorso non cambia. Non è un caso se ormai anche il partito della premier Meloni, col vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, abbia confermato che in attesa dell'improbabile fusione «il nucleare in Italia non si farà mai più».