Rinnovabili tagliate fuori dalla nuova Confindustria, il presidente di Elettricità futura verso l’addio
Ieri l’intera filiera elettrica nazionale, rappresentata dalle associazioni confindustriali Elettricità futura – che conta per il 70%, con alla presidenza Agostino Re Rebaudengo – e Federazione Anie, ha firmato un appello congiunto indirizzato a Palazzo Chigi, per avvertire che i crescenti ostacoli normativi all’installazione di impianti rinnovabili, che stanno portando il 96% del Paese a essere inquadrato come area non idonea, rappresentano un ostacolo non “solo” per gli obiettivi climatici ma anche per la competitività italiana: «Le rinnovabili sono le tecnologie che producono energia elettrica al minor costo e che garantiscono al Paese sicurezza e indipendenza energetica. Il loro sviluppo dovrebbe essere pertanto la priorità», dichiara il presidente Re Rebaudengo. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Nella nuova Confindustria con alla presidenza di Emanuele Orsini, che ha innestato la retromarcia sul Green deal compiacendo le sirene fossili e nucleari che strillano da sempre nel Governo Meloni, sembra non esserci più spazio per il futuro. Così stamattina la Repubblica in edicola lancia quella che è già più di un’indiscrezione: nell’assemblea straordinaria convocata a Milano il prossimo 14 ottobre, Re Rebaudengo verrà rimosso dalla presidenza di Elettricità futura, nonostante i due anni restanti di mandato. Un approccio condannato all'unanimità dalle principali associazioni ambientaliste nazionali - Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Greenpeace, Kyoto club, Legambiente e Wwf - riunite all'interno del 100% rinnovabili network.
Frenare (ancora) sulle rinnovabili è davvero un vantaggio per l’industria nazionale? La risposta è semplice, ed è negativa. Il piano di sviluppo proposto da Elettricità futura – più vicino alle proposte delle grandi associazioni ambientaliste nazionali rispetto al debolissimo Pniec messo in campo dal ministro Pichetto – punta a coprire l’84% della produzione di elettricità con le rinnovabili al 2030, con le imprese della filiera che si dicono da tempo pronte a investire 320 miliardi di euro, se la normativa glielo permette.
«Si tratta di un settore strategico che oggi occupa circa 80.000 addetti, cifra che potrebbe raddoppiare entro il 2030», spiega l’appello lanciato ieri in extremis, aggiungendo che nel 2023 le filiere industriali del fotovoltaico e dell’eolico hanno generato un volume d’affari di circa 10 miliardi di euro, e più del 60% di questo valore è rimasto sul territorio italiano: «I benefici socio-economici per l’Italia derivanti dallo sviluppo della filiera delle tecnologie rinnovabili sono notevoli e potrebbero equivalere fino al 2% del Pil annuo da qui al 2030».
È utile sottolineare che si tratta di una visione condivisa ben al di là dei confini dell’industria di settore. L’Ipcc indica chiaramente nelle rinnovabili le tecnologie più efficienti sotto il profilo dei costi per contenere le emissioni di CO2, e la Iea documenta che in Europa continueranno a essere più convenienti rispetto al nucleare nel 2030 come nel 2050. Il recentissimo rapporto Draghi spiega che la decarbonizzazione può e deve essere la strada dell’Europa verso la competitività, e già un anno fa la Iea, la Bei e la Bce chiedevano ai leader europei di accelerare lungo la strada dell’energia pulita, perché «procrastinare rischia di aumentare il conto che finiremo per dover pagare», parola della Lagarde.
Perché allora l’industria elettrica dovrebbe darsi la zappa sui piedi in modo così plateale? La motivazione è la stessa che prima delle elezioni Ue ha visto le lobby agricole infiammare le proteste contro il Green deal – con alle spalle i finanziamenti dell’estrema destra –, un vero controsenso dato che la Corte dei conti Ue informa che il 60-70% dei terreni europei non gode di buona salute, in primis per l’abuso di concimi, minando la possibilità stessa di portare avanti un’agricoltura di qualità. Lo stesso accade lungo la filiera dell’automotive, dove un’industria abituata a vivere di rendita e sussidi pubblici manca il coraggio d’investire per innovare e continua ad aggrapparsi al motore a scoppio mentre la Cina grazie alle sue politiche industriali invade il mercato con auto elettriche, più efficienti e pulite.
Stiamo vivendo l’avanzata di un’egemonia culturale di destra, che sul clima confonde le acque grazie al neo-negazionismo fondato sulla subdola strategia del nega, inganna e ritarda. E che sta trovando praterie anche a causa di un centrosinistra che balbetta – un caso su tutti, la Sardegna della moratoria alle rinnovabili – senza saper indicare una rotta chiara e condivisa verso uno sviluppo sostenibile che, per definizione, deve tenere insieme la dimensione ambientale con quella sociale: così la transizione ecologica finisce per essere interpretata come un obbligo imposto “dai burocrati di Bruxelles” anziché un’occasione per guadagnare in benessere. E per riequilibrare i conti. Perché sono i più ricchi i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra, e dovrebbero essere loro i primi a sostenere i costi e gli investimenti della transizione, a vantaggio di tutti.