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Intervista al direttore scientifico di ASviS, Enrico Giovannini

«Sulla transizione il governo sia coerente e ai piani faccia seguire i fatti»

«In questi 18 mesi sono stati approvati alcuni interventi utili in campo energetico, ma in molti casi manca la loro attuazione pratica»
 |  Interviste

«Il bilancio non è positivo, anzi…». Il bilancio di cui parla Enrico Giovannini riguarda questi primi 18 mesi di governo Meloni, visti alla luce delle politiche a tutela dell’ambiente e di contrasto ai cambiamenti climatici, ma anche di quelle economiche e sociali, analizzate nel recente ‘Rapporto di primavera’ dell’ASviS, di cui greenreport ha dato conto su queste pagine.

«Sono stati approvati una serie di interventi utili in campo energetico, e questo lo valuto positivamente», dice l’ex ministro delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili del governo Draghi. Ma da buon docente di Statistica economica (è professore ordinario all’Università di Roma Tor Vergata) e da co-fondatore e direttore scientifico dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) è abituato a ragionare soprattutto sulla base di fatti concreti, obiettivamente valutabili e misurabili, e su cifre precise. E, da questo punto di vista, quel “positivamente” appena pronunciato cambia subito di segno. «Purtroppo, pur andando nella direzione giusta, quanto finora approvato in termini di Piani non ha avuto alcun effetto pratico, o quasi».

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Intanto però, dopo sei anni di attesa e quattro governi, l’Italia adesso ha finalmente un Piano di adattamento ai cambiamenti climatici.

«Sì, ma dopo che il governo l’ha approvato non è più successo nulla. Il Pnacc è una buona base di partenza, che prevedeva però nell’immediato la messa in opera di una serie di azioni per la sua attuazione. E finora non c’è traccia di alcunché: la struttura di governance che dovrebbe portare alla realizzazione del piano non si vede all’orizzonte, le risorse finanziarie necessarie non si sa ancora da dove arriveranno, e intanto stiamo perdendo mesi e mesi».

Questo governo ha anche approvato la Strategia nazionale di sviluppo sostenibile predisposta dal governo Draghi: almeno per questo c’è di che essere soddisfatti?

«Se dopo l’approvazione avvenuta a settembre 2023 fosse cambiato qualcosa certamente, ma così non è stato: quella Strategia prevede che prima di procedere all’approvazione di ogni nuova legge si valuti l’impatto che può determinare sull’Agenda 2030. E purtroppo non è cambiato nulla perché questo tipo di valutazione ad oggi è inesistente».

Insomma è un problema di buone intenzioni ma con scarse capacità di attuazione?

«No, è innanzitutto un problema di coerenza. Se guardiamo agli ultimi 18 mesi appare evidente che non siamo lungo un percorso di sviluppo sostenibile e che le decisioni assunte in tale periodo non fanno fare al Paese quel cambio di passo che lo stesso governo, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite tenuta a New York sempre nel settembre 2023, ha detto che avrebbe fatto.
Ed è un problema di coerenza anche perché se da un lato il governo ha assunto impegni ben precisi riguardanti transizione verde e digitale, riduzione delle disuguaglianze, ecc. dall’altro ha ammesso, con la relazione alla Legge di Bilancio inviata a marzo al Parlamento, che quella che è la più importante legge non produrrà alcun effetto per i prossimi tre anni rispetto alla riduzione dei gas clima-alteranti.
Oltre che, aggiungo, rispetto agli altri indicatori del Benessere equo e sostenibile (BES), a cominciare da quelli relativi alla riduzione della povertà e a favore di una maggior uguaglianza. E questo è estremamente preoccupante, per più di un motivo. Il primo, perché nel 2027 al 2030 mancheranno soltanto tre anni. Il secondo, perché qui emerge l’enorme distanza tra questo scenario italiano e quello che è invece lo scenario europeo: l’Unione europea ha utilizzato questi ultimi cinque anni per fare un’operazione senza precedenti in termini di ampiezza e rapidità, dimostrando di voler e saper valutare ogni nuovo atto giuridico in funzione dell’impatto sull’Agenda 2030».

Come si può invertire la rotta italiana, secondo lei?

«Intanto, cambiando l’approccio complessivo al tema, perché è ottima l’adozione di certe strategie, ma poi bisogna passare alla loro attuazione, altrimenti non restano che dei pezzi di carta chiusi in qualche cassetto. E poi, tanto per cominciare, occupandosi in concreto dei temi della transizione energetica, sbloccando finalmente questioni quali la mancata identificazione delle aree idonee, evitando contraddittorietà come quella emersa nei giorni scorsi intorno al decreto legge sul fotovoltaico a terra nei terreni agricoli, e assicurando l’operatività dei cinque miliardi di finanziamenti Pnrr alle imprese per operazioni di efficientamento energetico, di cui si è persa traccia. Ecco, si potrebbe partire da qui. Purtroppo, però, noto che nonostante i tempi siano stretti, le azioni del governo non vanno in questa direzione e la stessa attuazione del Pnrr, dopo le tante revisioni, non si capisce a che punto sia perché manca una condivisione dei dati con la società civile».

Prima faceva riferimento ai cinque anni di legislatura europea che stanno per chiudersi: come giudica il fatto che in questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo non ci sia traccia in Italia dei temi relativi alla tutela dell’ambiente e al contrasto dei cambiamenti climatici?

«È preoccupante, ma questo fatto non costituisce una novità. Cinque anni fa, analogamente, non c’era una spinta su queste tematiche. Eppure, come dicevo, l’Unione europea ha compiuto uno straordinario lavoro in questi anni. Vuol dire che possiamo stare tranquilli? Ovviamente no. Perché la negoziazione europea, soprattutto nel Parlamento europeo, segue un approccio specifico sui singoli dossier, ma all’interno di un quadro strategico di medio termine, rappresentato dal Green deal e dall’assunzione dell’Agenda 2023 come riferimento generale. Di questo abbiamo bisogno anche per il futuro, anche se valuto molto bassa la possibilità che i risultati fin qui raggiunti vengano gettati alle ortiche».

Perché questo ottimismo?

«Perché in molti casi quelle innovazioni introdotte a livello europeo hanno ormai smosso il mercato, il mondo economico nella direzione giusta. Hanno avviato dei cambiamenti che prescindono dalla scelta del singolo Paese o addirittura delle singole forze politiche. In questi anni l’Unione europea ha fatto da apripista a una tendenza globale in questa direzione. Anche perché ormai è stato ampiamente compreso che il Green deal è una strategia di competitività, non di puro respiro ambientalista. Le stesse decisioni assunte dagli Stati Uniti, che hanno prima copiato l’Europa con grandi investimenti stile Green Deal, e ora imposto fortissimi dazi sui prodotti cinesi, dai chip alle automobili, si comprende in quest’ottica».

Lei parla del Green deal e dell’Europa come di uno strumento e di un soggetto che favoriscono la competitività, mentre in Italia ci sono forze politiche che tacciano il primo di essere una sorta di bastone tra le ruote per le imprese italiane e descrivono la seconda come un ente più che altro sanzionatore, che vuole decidere per noi in che case abitare e che macchine guidare: non vede il rischio che il secondo tipo di narrazione abbia più presa del primo, sui cittadini?

«Beh, l’attacco all’Europa va sempre di moda da parte di alcuni. E questo è in parte comprensibile, perché c’è un’asimmetria di poteri tra l’Europa e i paesi membri che costituisce un serio problema. Alcune politiche, quelle appunto ambientali, sono fortemente appannaggio del livello europeo, mentre quelle sociali si sviluppano a livello nazionale. E questo sicuramente genera difficoltà, se non adeguatamente comunicato da parte di forze politiche responsabili.
Sarebbe facile smentire già con un paio di esempi chi sostiene che l’Europa è un ente tutto intento a infliggere sanzioni: l’Italia ha ricevuto 1 miliardo e 400 milioni per la cosiddetta transizione “giusta”, cioè per aiutare settori e gruppi socioeconomici potenzialmente danneggiati dalla transizione energetica, peccato che non siano stati ancora spesi. Oppure: durante la pandemia da Covid-19 i cittadini hanno beneficiato di un sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione, il cosiddetto SURE creato a livello comunitario. Ma non si sono accorti che fossero fondi europei perché i Paesi non hanno sottolineato tale aspetto. Insomma, con una informazione più bilanciata sarebbe facilmente smentibile chi parla dell’Europa come di un arcigno guardiano esclusivamente mirante ad avviare procedure di infrazione.
D’altra parte, è impensabile che le grandi sfide del presente e del futuro possano essere affrontate restando da soli, cioè a livello nazionale: siamo nel pieno di una battaglia commerciale globale, come dimostrano i rapporti tesi a cui accennavo tra Stati Uniti e Cina, senza parlare delle guerre in corso. Se in questo contesto non agiamo per dare maggior forza all’Europa con strumenti quali il Green deal, l’emissione di debito comune per grandi investimenti (come fatto con il Next Generation Eu), ma pensiamo di basarci semplicemente sui fondi pubblici di un singolo paese, non andiamo da nessuna parte».

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.