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Intervista al direttore scientifico di ASviS, Enrico Giovannini

«Draghi ha indicato la crisi che mina le basi dell’Ue. Sta alla politica agire, e investire, rapidamente per evitare il peggio»

«Nel Rapporto è scritto che la competitività non si fa solo in termini di prezzi e costi: questa è una rottura radicale rispetto allo schema seguito per anni da paesi come la Germania ma anche dalla stessa Commissione. Serve un mercato unico dell’energia europea»
 |  Interviste

Chiedi un commento sul Rapporto Draghi al direttore scientifico di ASviS, Enrico Giovannini, e la prima risposta è sotto forma di premessa. «La base giuridica del Next Generation Eu è un articolo del Trattato che dice, in sostanza: in presenza di crisi, si fa quel che è necessario. Questa è stata la formula che ha consentito di far fronte a crisi come la pandemia o la guerra della Russia contro l’Ucraina». E il perché di questa prima precisazione da parte del docente di Statistica economica è presto detto: «il cuore» del report redatto da Draghi, dice Giovannini, che del governo guidato dall’ex premier e governatore Bce è stato tra l’altro ministro, «è che esiste una crisi che si trascina da circa vent’anni e che non abbiamo riconosciuto come tale». Non era facile riuscirci, aggiunge, «perché non siamo di fronte a un evento definito come la pandemia o la guerra, per le quali abbiamo potuto ricorrere al Next Generation Eu sulla base di quell’articolo del Trattato». Ma quel che sta avvenendo, ci dice Draghi, quel che sta progredendo in modo «strisciante», è qualcosa «che richiede comunque la necessità di agire sul versante del debito comune».

Intervista

Si aspettava un rapporto come quello che Draghi ha presentato a Bruxelles lunedì?

«Mi aspettavo un rapporto molto coerente sul piano del messaggio politico, e così è stato. Bisognerà vedere se verrà accolto dalla politica europea, e quindi si decida di affrontare questa ulteriore crisi. Quelli che Draghi usa sono tutti argomenti molto forti. Nel Rapporto sono presenti dati e analisi che mostrano da dove vengono i problemi che stiamo vivendo. Mettendo insieme tutti quei riferimenti, si dimostra che c’è una crisi che finora non è stata riconosciuta e che si aggiunge alle altre: la crisi del multilateralismo, la crisi climatica, la crisi sociale. Siamo di fronte a un messaggio che va bene al di là delle singole problematiche».

Si parla di competitività ma si rinvia a tematiche più ampie, è così?

«Intanto, è importante sottolineare che Draghi fa riferimento al concetto di competitività non puramente in termini di prezzo: scrive che la competitività che vogliamo deve essere coerente con gli obiettivi sociali che l’Unione europea ha e con la sostenibilità ambientale. Questa è una rottura molto forte, sul piano analitico e politico, rispetto al modello di competitività che è stato seguito nei decenni passati dalla Germania, ma anche dalla stessa Commissione europea, che a lungo era tutta orientata a ridurre i costi interni, i salari in primo luogo, e che ha portato al risultato che conosciamo, e cioè a una situazione di compressione dei salari, disoccupazione e insofferenza sociale, che ora costituisce un grande rischio per la sopravvivenza stessa dell’Unione».

Nel Rapporto si legge che anche la decarbonizzazione deve essere fonte di crescita: cosa ne pensa?

«Questo è un punto estremamente importante, che fa recuperare lo spirito originario del Green deal, che in Italia e non solo è stato dipinto come il frutto di un’inesistente ideologia ambientalista. Decarbonizzare è giusto non solo perché abbiamo una responsabilità nei confronti del mondo e di noi stessi, ma perché è una grande opportunità di business. Questo era il messaggio iniziale del Green deal. Il problema, dice ora Draghi, è che mentre altri hanno veramente capito il potere competitivo di investire su tecnologie green, noi lo abbiamo visto come un costo. Altri paesi hanno destinato ingenti fondi all’obiettivo di accompagnare la trasformazione del sistema produttivo - aiuti di Stato in Cina, altri tipi di sostegno negli Stati Uniti - mentre l’Europa non l’ha fatto, se non marginalmente con il Next Generation Eu. E in questo il discorso di Draghi è in perfetta coerenza con quanto sostenuto da Ursula von der Leyen. Bisogna porre attenzione dunque alla trasformazione industriale, perché senza di essa la transizione ecologica noi non la facciamo. E la trasformazione dei sistemi produttivi richiede il sostegno pubblico».

Parlava di tecnologie green: cosa ne pensa del fatto che, nel rapporto, Draghi mette sullo stesso piano, di contro ai combustibili fossili, tanto le rinnovabili quanto il nucleare?

«Il nucleare è all’interno della tassonomia europea degli investimenti, non poteva scrivere qualcosa di diverso. Il tema però è chiaramente di straordinaria complessità».

Cosa intende dire?

«Personalmente sono d’accordo con l’opportunità di investire quantità significative di risorse economiche in ricerche sulla fusione nucleare, perché oggi non abbiamo una soluzione che consenta di fornire energia a basso costo in tutto il mondo, mentre potenzialmente la fusione potrebbe esserlo. Dopodiché, il tema è: le attuali tecnologie del nucleare, ci possono aiutare nel prossimo futuro e quando? Certamente non entro il 2030, data per la quale dovremo centrare gli obiettivi di decarbonizzazione europei. Per centrare l’obiettivo della neutralità carbonica, entro il 2025 dovremmo usare le tecnologie di terza generazione, con tutti i rischi che comportano, mentre non abbiamo ancora quelle di quarta. Quindi chi dice che dovremmo ricorrere al nucleare al posto delle rinnovabili commette un errore di tipo concettuale, reale, economico. Se invece si dicesse che è una scelta fattibile tra il 2040 e il 2050, gli interrogativi a cui bisognerebbe rispondere sono tanti e molto consistenti, e finora non ho trovato argomenti convincenti».

Parlava della possibilità di produrre energia a basso costo e anche nel rapporto Draghi il tema torna spesso, però si dice anche che nonostante l’avanzata delle rinnovabili i prezzi vengono determinati ancora dai combustibili fossili.

«Quello sul costo dell’energia è uno dei passaggi chiave del Rapporto, fondamentale per recuperare. Se non si riesce a trasferire sulle famiglie e sulle imprese la riduzione dei costi di produzione grazie alle rinnovabili, si determina un cortocircuito inaccettabile. Bisogna rivedere governance e sistemi dei mercati per superare questo blocco».

Ma perché i prezzi delle bollette non vengono parametrati in base alle percentuali crescenti di rinnovabili?

«Perché non riusciamo a costruire un moderno ed efficiente mercato europeo dell’energia. Il nostro è un mercato tutto frammentato, figlio in realtà di un mondo in cui erano presenti prezzi del gas bassi. Ci eravamo agganciati a quel sistema perché era conveniente, ma la realtà è cambiata e dobbiamo inventare un nuovo sistema».

Non facile, finché a livello planetario rimarranno interessi consolidati che vanno in direzione contraria, anche rispetto la decarbonizzazione, non crede?

«Guardi, noi abbiamo costruito tutto un sistema di regolazioni che è finalizzato a ridurre le emissioni. Ma supponiamo pure che arrivassimo a Net Zero nel 2050. Non è che così la CO2 sparisce dall’atmosfera il giorno dopo. Ci vorrà un lunghissimo tempo perché ciò avvenga e la temperatura media globale continuerà ad aumentare per molto tempo. Allora, quello che dovremmo fare è sviluppare tecnologie per togliere la CO2 dall’atmosfera terrestre. E quindi dovremmo iniziare a pensare a un sistema di incentivi e a un mercato che spinga le imprese ad andare in questa direzione e a sviluppare tecnologie di questo tipo. Questo esempio ci aiuta a capire quanto dobbiamo guardare avanti».

Tra le proposte presenti nel Rapporto Draghi c’è anche la creazione di un mercato unico dei rifiuti, come tassello di un’economia circolare che andrebbe adottata dall’Ue: sarebbe utile, secondo lei?

«Certamente sì, ma mi lasci dire con una battuta: magari, se l’Italia avesse un mercato unico nazionale, faremmo già un passo avanti. Peccato che invece abbiamo 21 mercati regionali, perché il Titolo V della Costituzione ha assegnato alle regioni di legiferare sui rifiuti e le imprese si scontrano con grandi differenze su cosa sia una materia prima seconda o un rifiuto. Di fronte a questo disastro, ora con l’Autonomia differenziata si dovrebbero trasferire altre 23 materie a livello regionale, una follia assoluta nel momento in cui chiediamo più coerenza delle politiche europee. Certamente, quindi, dovremmo andare nella direzione indicata da Draghi a livello europeo, ma coerenza vorrebbe che intanto l’Italia eviti di spezzettare al suo stesso interno le competenze su settori strategici».

E della proposta di creare una piattaforma delle materie prime critiche, cosa ne pensa?

«L’Europa ha approvato il regolamento delle materie prime critiche. Certamente, anche in questo caso andare verso un mercato unico integrato aiuterebbe, ma questo ci porta poi al Rapporto Letta sul Mercato unico europeo, che merita altrettanti approfondimenti».

Vede una relazione tra i due Rapporti?

«Certo, e sarebbe bene che non solo i politici, ma anche i commentatori li leggano in modo congiunto».

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.