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Intervista al direttore scientifico del Kyoto club, Gianni Silvestrini

«Con questo Pniec il governo danneggia l’Italia»

«Testo poco ambizioso, sbagliato sul nucleare e che insieme ai decreti Aree idonee e Agricoltura frena le rinnovabili»
 |  Interviste

Il Piano nazionale integrato energia e clima del governo Meloni? Da bocciare, secondo il direttore scientifico del Kyoto club Gianni Silvestrini. Perché meno ambizioso del precedente, perché rilancia il nucleare e perché fa il paio con i decreti del governo che pongono diversi freni alle rinnovabili. Il tutto, a danno delle famiglie e delle imprese italiane, che invece avrebbero molto da guadagnare da un investimento in questo settore.

Il governo ha inviato a Bruxelles il nuovo Pniec: qual è il su giudizio riguardo al testo?

«Decisamente negativo. È un documento che, intanto, è meno ambizioso del precedente, che prevedeva come target per le rinnovabili il 65% entro il 2030, mentre adesso è stata fissata al 63% la quota di consumi coperta da queste fonti. Il paradosso è che mentre l’Europa spinge per il raggiungimento di obiettivi più alti, soprattutto dopo dell’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina, e mentre a livello mondiale si assiste a una crescita esponenziale di alcune tecnologie, come il solare, l’eolico, l’auto elettrica e l’affacciarsi di batterie a lunga durata e di accumulatori che possono garantire energia elettrica anche nelle ore notturne, in Italia si stanno adottando politiche che pongono molti freni a tutto ciò. E questo, mentre ormai è risaputo che le rinnovabili hanno potenzialità enormi per produrre energia elettrica a basso costo, il che consentirebbe di garantire un vantaggio economico a famiglie e imprese e, nel complesso, permetterebbe all’Italia di importare meno gas metano dall’estero».

Lei parla di Pniec non sufficientemente ambizioso, ma il governo dal canto suo parla di piano realistico: chi può dire che quel 63% indicato dall’esecutivo sia una percentuale effettivamente superabile?

«Ma le stesse aziende del settore lo dicono, e da tempo. Elettricità futura, la principale associazione del comparto elettrico italiano, aveva già dichiarato in audizione alla Camera che nell’attuale contesto le aziende possono realizzare rinnovabili che arriverebbero a coprire il 75% dei consumi elettrici finali. Il governo ha deciso di ignorarle».

Il governo non potrà però ignorare obiettivi che per quanto non sufficientemente ambiziosi, come dice lei, sono comunque impegnativi, non crede?

«Il problema è che di fatto li sta già mettendo a rischio adottando misure che, rispetto a quegli stessi obiettivi, vanno in direzione totalmente opposta. Pensiamo al decreto Agricoltura o al decreto Aree idonee: il governo ha fatto passare inutilmente due anni per poi limitarsi a delegare alle Regioni il compito di adottare i criteri per individuare i siti dove realizzare nuovi impianti per le fonti rinnovabili.

Trattandosi di criteri anche estremamente rigidi – pensiamo per esempio alla distanza fino a 7 chilometri da beni culturali per impedire l’autorizzazione – c’è il serio rischio che si produca un’impasse, soprattutto senza il cosiddetto burden sharing, cioè il principio secondo cui ogni Regione dovrebbe raggiungere determinati obiettivi entro il 2030».

Sempre dal fronte governo si spiega che demandare alle Regioni serve a introdurre un elemento virtuoso e sollecitarle ad avere un ruolo attivo nelle decisioni: cos’è che non la convince?

«Intanto, c’è già il caso della Sardegna, che ha stabilito una moratoria di 18 mesi per nuovi impianti da rinnovabili, che dovrebbe far riflettere. Ma poi è chiaro che se è vero che può esserci qualche Regione virtuosa, molte finiranno per assecondare pressioni locali che rallenteranno o addirittura bloccheranno i nuovi progetti. Anche questa decisione di delegare alle Regioni è un controsenso, soprattutto alla luce della spinta arrivata dal G7 a presidenza italiana affinché le rinnovabili vengano triplicate entro il 2030».

Rispetto invece a quanto scritto nel Pniec circa le infrastrutture a gas, qual è il suo giudizio?

«Anche in questo caso negativo. Il Piano identifica nei due terminali di rigassificazione di Porto Empedocle e Gioia Tauro delle infrastrutture fondamentali, urgenti, ineludibili, ma stiamo parlando di progetti che richiedono investimenti ingenti e che rischiano di rivelarsi dei veri e propri stranded assets, investimenti cioè che perdono valore prima ancora di essere ammortizzati, considerato l’obiettivo di emissioni nette pari a zero entro il 2050».

Il Pniec prevede anche un ritorno al nucleare, con la centralità data ai cosiddetti small modular reactors: la sua valutazione, su questo punto?

«Intanto, giudico negativamente questa introduzione, che non c’era nel precedente Pniec. Quanto ai piccoli reattori nucleari, ci si potrebbe limitare a dire che si tratta di un settore in cui a parte alcuni impianti in Russia e in Cina di cui si sa poco, nessuno in occidente intende impegnarsi. È notizia di una settimana fa che anche la Francia, che lavorava a un progetto di questo tipo dal 2019, ha abbandonato. E il motivo è semplice: si tratta di ipotesi complesse, costose, dall’esito incerto e che vanno in controtendenza anche rispetto a quanto sostenuto finora dai convinti nuclearisti».

Forse perché la International Energy Agency ha calcolato che i costi del nucleare sarebbero superiori a quelli delle rinnovabili anche in futuro?

«Sicuramente ormai è chiaro che i progetti per reattori convenzionali prevedono costi triplicati e tempi di realizzazione aumentati di due o tre volte. E quindi per questo ci si è lanciati sulla realizzazione di piccoli reattori. Ma negli ultimi cinquant’anni c’è stata la tendenza a costruire reattori sempre più grandi per ridurre i costi, e non si capisce perché a questo punto i piccoli reattori dovrebbero far contenere le spese.

Pensiamo all’Italia: sarebbe pensabile se venissero prodotti in fabbrica, nell’ordine di 300 o 500 unità, ma con numeri limitati i costi sarebbero decisamente più alti. Se ne sono resi conto anche in Francia, come dicevo, e pure negli Stati Uniti, dove la costruzione di una centrale di questo tipo che aveva già ricevuto la certificazione necessaria è stata bloccata perché i finanziatori hanno visto che le spese stavano superando ogni ragionevole ipotesi».

Che si faccia però ricerca, sul nucleare, secondo lei va bene o no?

«Certamente, si faccia pure ricerca, ma non si utilizzi questo per bloccare le rinnovabili. La fusione nucleare dovrebbe cominciare a fornire energia elettrica nel 2050, ammesso che funzioni. Mentre abbiamo a disposizione tecnologie che corrono in maniera inarrestabile e anche imprevedibile. Nel 2023, a livello mondiale, il solare è aumentato di oltre l’87% rispetto al 2022. C’è una crescita esponenziale delle rinnovabili perché i prezzi sono crollati. Sarebbe molto più ragionevole, per un paese come l’Italia, puntare su tecnologie che costano poco e portano vantaggi a famiglie e imprese e riducono importazione di gas. Altro che nucleare. Ma purtroppo, Pniec e decreti del governo vanno in direzione opposta. Una contraddizione che provocherà danni all’Italia».

C’è solo di che essere pessimisti o vede un’alternativa a questo destino?

«Vedo che c’è una forte pressione da parte delle aziende che realizzano impianti rinnovabili e penso che potranno superare i vari ostacoli introdotti da queste misure del governo. Però è chiaro che i tempi rischiano fortemente di essere rallentati».

Perché, secondo lei, le aziende vedono più lontano delle forze di governo?

«Perché operano a livello internazionale e in un settore fortemente competitivo. Pensiamo alla mobilità sostenibile. In Cina già ora le auto elettriche sono quelle che costano meno. È inevitabile che in futuro saranno queste le auto più convenienti e che domineranno il mercato. In Italia c’è chi dice che bisogna rivedere il 2035 come termine per le auto a combustione interna. Ma non ci si rende conto che continuare così, dare incentivi anche per auto tradizionali, caso unico in Europa, significa limitare fortemente le capacità delle aziende italiane di essere competitive in questo settore. Purtroppo questo è un problema che riguarda anche il resto d’Europa e gli stessi Stati Uniti. La Cina ha capito vent’anni fa che la mobilità elettrica sarebbe stata il futuro, ci ha investito enormi risorse e si prepara a diventare un attore leader in questo settore. È successo lo stesso con il fotovoltaico in passato, ora sta a noi recuperare il tempo perduto. Ma non sarà di certo possibile se le politiche italiane sulle rinnovabili resteranno di questo tipo».

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Ha svolto attività di ufficio stampa per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale e pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.