«La transizione è un’avventura, non solo una necessità. Molte imprese lo hanno capito, la politica no»
«La transizione ecologica, come tutte le grandi sfide, si vince se si agisce insieme. È un’avventura, non solo una necessità». E allora ecco che “la Compagnia dell’Anello” si rimette in marcia. Destinazione Mantova. Perché Mantova? Perché è bella, è la risposta che potrebbe suonare banale, ma tanto banale non è. E poi, cos’è questa tolkeniana compagnia di cui parla Ermete Realacci? Ma è Symbola, chiaro, la Fondazione di cui è presidente. Che dal 27 al 29 giugno riunirà nel Comune lombardo, per l’annuale seminario estivo fior di economisti, imprenditori, docenti universitari, esponenti del terzo settore, del mondo della cultura e della sfera istituzionale. Ma andiamo con ordine.
Intervista
Il titolo scelto per questa tre giorni è “Noi siamo i tempi”: sarebbe a dire?
«È estrapolato da una frase di Sant’Agostino: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”. È un enunciato volitivo, sicuramente opposto rispetto ai tanti, troppi mugugni che si sentono in giro, per certi versi perfino ambizioso. Ma l’ambizione non manca a questa specie di Compagnia dell’Anello che è Symbola. A Mantova si confronteranno personalità eterogenee, esponenti dell’associazionismo e dell’ambiente accademico, del mondo delle imprese e di quello istituzionale, che in un clima informale potranno ragionare assieme su come rafforzare un’Italia che fa l’Italia».
E com’è un’Italia che fa l’Italia?
«È un Paese che affronta le sfide mettendo insieme tre parole cardine – visione, coraggio, comunità – ma anche la capacità di innovare dando valore alla propria storia, cultura, bellezza. Senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare solo nessuno. Oggi appare fuori moda un’idea positiva dell’Italia.
Il lavoro avviato da alcuni presidenti della Repubblica, iniziato da Ciampi e proseguito da Mattarella, è essenziale per rafforzare l’idea del nostro stare assieme e di una chiara identità del Paese. Dobbiamo recuperare l’orgoglio di essere italiani, recuperare la memoria da dove veniamo, permettere ai nostri cromosomi positivi di orientare il futuro. Altrimenti vince il disfattismo, vince chi soffia sulle paure. Anche per questo, in Italia ma anche in moltissimi altri paesi occidentali, chi vive lontano dalle città è più propenso a votare per le forze populiste».
Per quali motivi, soprattutto, secondo lei?
«Perché lì fanno più facilmente breccia le idee negative, le paure. Diceva Giorgio La Pira che solo gli animali privi di spina dorsale hanno bisogno del guscio. Era un sindaco, non un biologo, e infatti la tartaruga e l’armadillo smentiscono questa osservazione, ma voleva dire che se hai un’identità forte allora ti apri all’esterno e se invece hai un’idea indebolita di te stesso costruisci muri contro gli altri per trovare in questo la tua identità.
Le forze di destra alimentano le paure sugli immigrati, che invece sono anche necessari alle nostre imprese, e le forze di sinistra sono troppo timide nel recuperare in positivo un’idea di identità comune, di patria, che è essenziale anche per affrontare una sfida così impegnativa come quella della transizione ecologica».
A proposito di transizione e di destra e sinistra: come giudica il risultato del voto europeo, che sembra premiare forze ostili alla transizione ecologica?
«C’è una destra che dice di voler puntare al nucleare e intanto blocca le rinnovabili, che sono il futuro, e una sinistra che affronta la tematica ambientale con un’ottica doverista, quando invece c’è bisogno di un traguardo mobilitante. Questa grande sfida deve essere comunicata in positivo. Come diceva Alexander Langer, “la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”».
Faceva riferimento al nucleare: lei è contro la ricerca in questo campo?
«La ricerca va sicuramente portata avanti, può magari aprire altri orizzonti. Lo stesso solare fotovoltaico deve molto alle necessità dei voli spaziali. Però un tempo realistico per un utilizzo operativo della fusione è la fine del secolo. Nel frattempo, queste ricerche non possono essere usate per fermare ciò che ci serve subito e che va fatto. Non a caso l’anno scorso l’87% dei nuovi impianti di energia elettrica installati nel mondo erano da fonti rinnovabili e il 13% da tutto il resto. Non è un caso che gli arabi si stiano muovendo sulle tecnologie rinnovabili: sanno che prima o poi il petrolio finirà e si preparano a restare comunque sul mercato energetico. E non è un caso che in Cina, attualmente il più grande mercato automobilistico del mondo, a maggio il 47% delle autovetture vendute ha riguardato veicolielettrici e plug-in. Stanno facendo un allenamento in casa e poi andranno in trasferta. E la trasferta siamo noi».
Noi Europa?
«E non solo. In Cina hanno installato in un anno tante rinnovabili quante ce ne sono complessivamente negli Stati Uniti d’America. E sì che anche gli Usa, che di sicuro sono molto pragmatici, non scherzano. Uno degli Stati che spinge di più sulle rinnovabili è la California. Ma il Texas, patria di Big oil, in pochi anni ha superato la California per disponibilità dienergia pulita. Il motivo? Semplice: se costa meno la pala eolica, comprano quella invece del carbone degli Appalachi.
E invece in Italia si bloccano le rinnovabili con provvedimenti confusi e contraddittori o, come è successo in Sardegna, con moratorie decisamente scandalose. Per fortuna, una parte importante dell’economia e ampi pezzi della società vanno molto più avanti della politica. Il problema è che se è vero che sempre più imprese si muovono nella direzione giusta, perché ormai sia gli imprenditori che i consumatori hanno capito che la sostenibilità conviene ed è sinonimo di qualità, è anche vero che questo mondo imprenditoriale non è ascoltato dalla politica. O, addirittura, non è conosciuto».