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Intervista al direttore scientifico di ASviS, Enrico Giovannini

«Semplificazione? Il rischio è che l’Omnibus sia inteso dalle imprese come un “tana libera tutti”»

«Gravi passi indietro su rendicontazione e due diligence, a Bruxelles a qualcuno deve essere scappata la penna. La proposta della Commissione è andata addirittura al di là di quello che molti Paesi chiedevano. Il Clean industrial deal? La differenza la faranno gli eventuali nuovi finanziamenti, quelli di cui parla il Rapporto Draghi, non il riuso di quelli già esistenti»
 |  Interviste

«Il rischio è che il messaggio sia inteso dalle imprese come un “tana libera tutti”». Enrico Giovannini ha analizzato con cura i contenuti del cosiddetto pacchetto Omnibus presentato mercoledì dalla Commissione europea. Il direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) sottolinea che siamo solo all’avvio di un processo che dovrà concludersi con un pronunciamento da parte del Consiglio e del Parlamento europeo. Ma per quel che riguarda le misure lanciate da Bruxelles sulla due diligence e sulla semplificazione delle norme per la rendicontazione dell’impatto ambientale e sociale, osserva che «a qualcuno deve essere scappata la penna»: «La proposta della Commissione è andata addirittura al di là di quello che molti Paesi chiedevano. Perché si è spinta così oltre? È veramente incomprensibile».

Intervista

Sottolinea che si tratta di una proposta perché non esclude correzioni in corsa?

«Ricordo semplicemente che quanto contenuto nell’Omnibus, nel Clean industrial deal e nelle altre iniziative presentate questa settimana a Bruxelles dovrà trasformarsi in direttive del Consiglio e del Parlamento europeo, quindi bisognerà vedere che punto di caduta si troverà nel dibattito politico, e quando».

Circa il quando, le misure per la competitività delle imprese contenute nel Clean industrial deal richiederebbero un via libera in tempi stretti, se si pensa all’aggressività della recente politica commerciale statunitense, gli obiettivi della Cina, gli alti costi dell’energia in Europa e via elencando: c’è il rischio che l’urgenza metta a rischio il Green deal?

«Proprio alla luce dei contenuti del Clean industrial deal possiamo dire che il Green deal, come impostazione delle politiche europee, è vivo e lotta insieme a noi, ancorché un po’ acciaccato. L’obiettivo originale resta chiaro: raggiungere gli obblighi climatici. Per raggiungerlo si aumentano i fondi per accompagnare l’industria nel compiere la transizione energetica e, più in generale, ecologica. Una delle grandi debolezze dello schema precedente – non per colpa della Commissione ma perché non c’erano fondi, se non quelli del bilancio Ue e del Next generation Eu – erano i finanziamenti insufficienti per accompagnare la transizione».

Ora c’è l’annuncio di 100 miliardi di euro.

«Sì, che però al momento sono stati presentati come la movimentazione di fondi esistenti nel bilancio dell’Unione. Cioè non ci sono fondi freschi per portare a compimento quanto annunciato e comunque sono pochi. Alla fine, la differenza la faranno gli eventuali nuovi finanziamenti, quelli di cui parla il Rapporto Draghi, non il riuso di quelli già esistenti. Quindi la questione è: si aumenta il bilancio dell’Unione? E se sì, come? Ora si dovrà discutere il bilancio pluriennale 2028-2034 e lì si vedrà quale strada intende prendere l’Ue».

Quindi non è scontato che il Clean industrial deal, che è stato presentato come un’implementazione del Green deal, farà compiere un salto di qualità?

«Il Clean industrial deal va incontro alla necessità di accompagnare la regolamentazione con i finanziamenti richiesti dalle imprese. Vedremo se diventeranno rapidamente realtà oppure no e se le semplificazioni per la loro erogazione saranno veramente tali».

Invece quanto all’Omnibus che dice? Diverse sigle ambientaliste, sia italiane che europee, hanno espresso un giudizio negativo.

«Giustamente. È criticabile sia il segnale dato con l’Omnibus sia molti dei suoi contenuti. Per questo dico che a Bruxelles a qualcuno deve essere scappata la penna. La proposta della Commissione, che ricordo nuovamente è soltanto l’inizio di un processo, è andata addirittura al di là di quello che molti Paesi chiedevano. Perché?»

Lei che risposta si dà?

«Dipende dalle singole misure proposte come semplificazioni. Ad esempio, la Commissione ha detto che esentando il 90% delle piccole imprese dall’applicazione della Carbon Tax alla frontiera (Cbam) si rinuncerebbe a controllare solo l’1% delle emissioni. Se fosse così, direi che il gioco vale la candela. Tra l’altro, il Cbam è un meccanismo complesso ed è bene che sia stata annunciata l’accelerazione della definizione delle regole di attuazione. Diverso è il caso della direttiva Csrd».

Direttiva che riguarda la rendicontazione dell’impatto ambientale e sociale delle attività delle imprese, che nella nuova formulazione della Commissione esenta l’80% delle aziende europee: che ne pensa?

«Che è una scelta veramente incomprensibile, oltre che sbagliata. Si passa da obbligare alla rendicontazione di sostenibilità (che, ricordo, non riguarda solo gli aspetti ambientali, ma anche quelli sociali e di governance, le famose regole ESG) 50 mila aziende con 250 addetti e più a una platea di ‘solo’ 10 mila aziende con oltre 1.000 addetti. Addirittura, si torna indietro di due direttive: non solo la più recente, che appunto stabiliva il limite di 250 addetti, ma anche quella precedente che si applicava a quelle con più di 500 addetti. Si fatica davvero a comprendere il perché di simili passi indietro. Potrei capire una semplificazione per le imprese più piccole, ma le grandi e molte delle medie si sono già attrezzate per essere in regola con gli obblighi della Direttiva. L’obbligatorietà viene sostituita con la volontarietà, il che condurrà alla non comparabilità dei dati e, dunque, alla scarsa pressione che tale meccanismo doveva produrre sulle imprese».

E che dice della direttiva sulla due diligence (Csddd), rinviata al 2028 e che richiederà alle aziende controlli ambientali e sui diritti umani solo per i fornitori diretti?

«Che non è semplificazione, è pura marcia indietro. Sono stati eliminati molti elementi innovativi e importanti, sbagliando. Ad esempio, posso capire che alcune imprese abbiano segnalato problemi di applicazione in caso di imprese subfornitrici sparse per il mondo (ad esempio, per un’azienda europea che ha un fornitore asiatico che a sua volta si avvale di un subfornitore del medio oriente può diventare complicato tenere tutta la filiera sotto controllo). Ma da qui a dire che si passa alla non punibilità civile, quindi la Commissione non si costituisce parte civile, al minore coinvolgimento degli stakeholder, alla rinuncia a discutere in futuro sulla possibile estensione al settore finanziario, ce ne passa. Quindi, sì, in tutto questo c’è un passo indietro molto grave. Il rischio è che il messaggio sia inteso dalle imprese come un “tana libera tutti”. Anche oltre forse l’intenzione della stessa Commissione. Ed è qui che giustamente le voci critiche si fanno sentire. È evidente che c’è stato qualcuno più realista del re. E la domanda è: in cambio di cosa?»

E la sua risposta qual è? In cambio di cosa, secondo lei?

«Posso solo procedere per esclusione. Ed escludo che sia in cambio di un aumento della competitività del settore industriale. I dati mostrano infatti che le imprese che hanno preso sul serio la sostenibilità – non solo per compliance – guadagnano in competitività, redditività, aumentano l’occupazione e anche i profitti. Dunque, credo sia stato un modo di compiacere le forze politiche conservatrici e le associazioni imprenditoriali, magari per evitare che in Parlamento o in Consiglio si abbiamo spinte al totale smantellamento della normativa».

C’è il rischio che, magari per ottenere profitti immediati anziché maggior convenienza nel lungo periodo, molte aziende rivedano le loro strategie sulla sostenibilità?

«Dubito che le imprese che hanno preso seriamente la sostenibilità come strategia e ne hanno beneficiato torneranno indietro. Perché dovrebbero? C’è poi un secondo gruppo di imprese, quelle che magari beneficeranno dei finanziamenti che la Commissione promette, per le quali avrebbe senso introdurre un meccanismo di condizionalità: ricevi soldi pubblici e in cambio fai la rendicontazione. Ci sono poi le aziende (in Italia circa il 30%, secondo varie stime) che non hanno ancora preso seriamente la sostenibilità: queste potrebbero essere disincentivate a procedere in tale direzione, e quindi pagare un prezzo in termini di competitività e innovazione». 

Condizionalità che però al momento non è prevista nelle proposte della Commissione.

«Infatti, ma è auspicabile che venga introdotta nei prossimi passaggi. Mi sembrerebbe un modo coerente di affrontare la questione».

Quanto a coerenza: il settore finanziario, dalla Bce in giù, prevede comunque tutta una serie di valutazioni sui rischi di investire su imprese vulnerabili sul piano climatico, geologico, ecc. Come si conciliano con la nuova impostazione delle direttive, se approvate così come proposte dalla Commissione?

«Sappiamo che la sostenibilità non è solo ambientale o energetica. La spinta della finanza verso la carbon neutrality, l’efficienza e l’autonomia energetica non si esaurirà: quindi, ci saranno imprese che per mostrare la propria solidità continueranno a presentare i report di sostenibilità. Il rischio è che si porrà una minore attenzione alladimensione sociale, visto che questa non rientra nella valutazione dei rischi da parte delle istituzioni finanziarie. L’effetto complessivo potrebbe quindi essere più limitato per la dimensione ambientale e più pesante per il rispetto dei diritti umani, l’attenzione alla diversità e all’inclusione, ecc.».

Qual è il rischio maggiore che si corre ora, in generale, secondo lei?

«Se questa iniziativa fosse stata presa non nel contesto della guerra dichiarata dall’amministrazione Trump alla sostenibilità l’avremmo giudicata forse con altri occhi. Ma non possiamo non tener conto che gli Stati Uniti stanno deliberatamente tornando ad un capitalismo selvaggio basato sui combustibili fossili. Non a caso, espressioni come cambiamento climatico, sostenibilità e decarbonizzazione sono state proibite nel linguaggio delle amministrazioni, spariscono le statistiche su questi temi dai siti web ufficiali statunitensi. Dunque, l’Europa dove evitare accuratamente di dare anche solo l’impressione di allinearsi all’impostazione trumpiana e di consentire ai nemici della sostenibilità di dire che anche qui il termine è passato di moda. La società civile ha un ruolo fondamentale per contrastare questa narrativa antiscientifica e dannosa per le imprese e le persone. Per questo, come ASviS lavoreremo con le nostre centinaia di aderenti per far sì che il prossimo Festival dello Sviluppo sostenibile, che si terrà a maggio, sia l’occasione per inviare un forte messaggio, anche culturale, a rispettare i valori che caratterizzano l’Unione europea, il cui Trattato fa esplicito riferimento alla sostenibilità del nostro continente e del mondo come obiettivo comune.  Peraltro, ora che, anche grazie all’ASviS, proprio la tutela dell’ambiente, anche nell’interesse delle future generazioni, è entrata nella Costituzione italiana è necessaria una forte mobilitazione che contrasti la diffusione, anche in Italia, di fake news e della propaganda ostile alla sostenibilità».

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.