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I sottomarini radioattivi sovietici sono ancora una minaccia tossica per l’Artico

La guerra in Ucraina ha peggiorato la situazione e sulle future generazioni russe incombono minacce radioattive in gran parte ignorate
 |  Inquinamenti e disinquinamenti

Secondo Charles Digges dell’ONG scientifica-ambientalista Bellona, «L’Artico russo è destinato a rimanere uno dei luoghi più contaminati del pianeta. Dalle vecchie basi dei sottomarini nucleari sovietici e i cantieri di manutenzione a terra ai reattori dismessi, ai rifiuti radioattivi e, in alcuni casi, a interi sottomarini nucleari che furono intenzionalmente affondati in mare».

In un editoriale pubblicato prima sul The Moscow Times  e poi sul sito di Bellona, Digges ricorda che non avrebbe dovuto andare così: «Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, un consorzio di governi occidentali si è adoperato per aiutare a decontaminare i resti della un tempo temuta flotta di sottomarini nucleari sovietici. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, un totale di 198 sottomarini arrugginiti e abbandonati, ancora carichi di combustibile a base di uranio esaurito, sono stati smantellati in sicurezza attraverso accordi di finanziamento bilaterali e scambi scientifici con i paesi europei. Ma da quando i carri armati russi sono entrati in Ucraina nel febbraio 2022, quella cooperazione si è fermata». 

Vladimir Putin assicurò che la Fedrezione Russa avrebbe potuto continuare da solo la bonifica nucleare dell’Artico, ma il rapporto “The nuclear legacy of the Russian Arctic (status as of late 2023 and prospects for its elimination)” di Bellona dimostra che il governo russo in tempo di guerra ha poco interesse – o finanziamenti – per portare a termine il lavoro. 

Digges denuncia che «La situazione nella baia di Andreyeva, un ex cantiere di manutenzione di sottomarini a nord-ovest di Murmansk, vicino al confine norvegese, è particolarmente preoccupante». Durante la sua esistenza questo sito di rifornimento ha accumulato circa 22.000 gruppi di combustibile nucleare esaurito provenienti da più di 100 sottomarini, molti dei quali erano immagazzinati in contenitori arrugginiti all'aria aperta.  L’esponente di Bellona ricorda che «Queste condizioni scadenti vennero alla luce nel 1982, quando 600.000 tonnellate di acqua radioattiva fuoriuscirono dal sito nel Mare di Barents. Dopo decenni di pressioni da parte di Bellona, ​​la pulizia della baia di Andreyeva è finalmente iniziata nel 2017. Ha richiesto la cooperazione internazionale, finanziata dalla Norvegia e utilizzando una nave fornita dall’Italia. Tuttavia, nel sito rimangono ancora numerose barre di combustibile danneggiate, immagazzinate in edifici irradiati che necessitano anch'essi di essere smantellati e smaltiti».

Questo progetto di bonifica – per il quale la sola Norvegia ha speso circa 30 milioni di euro – doveva essere completato entro il 2028, ma dall’inizio della guerra in Ucraina Mosca ha posticipato la scadenza a un punto vago negli anni ’30 e ha fornito scarse prove verificabili di progressi in corso ad Andreyeva.

Ma sotto l’Oceano Artico si nascondono altre minacce: «Il più recente piano di sviluppo dell’Artico di Mosca ha delineato gli sforzi per riportare a galla una serie di rifiuti nucleari affondati dai sovietici nei mari di Barents e Kara – compresi i sottomarini nucleari K-27 e K-159 – entro il 2035 – avverte Digges - . Questi sottomarini rappresentano la sfida più grande per la bonifica e aumentano il lavoro da fare. Complessivamente contengono 1 milione di curie di radiazioni, ovvero circa un quarto di quelle rilasciate nel primo mese del disastro di Fukushima». 

L’esempio di quanto sia difficile la bonifica dei cadaveri arrugginiti dei sottomarini nucleari sovietici e il K-27. un sommergibile varato nel 1962 che  subì una perdita di radiazioni in uno dei suoi reattori sperimentali raffreddati a metallo liquido dopo soli tre giorni in mare. Negli anni successivi, la Marina militare sovietica tentò di riparare o sostituire i reattori. Ma nel 1979 i sovietici si arresero e dismisero il K-27 che però era troppo radioattivo per essere smantellato convenzionalmente e quindi, nel 1982, venne rimorchiato nel poligono di test nucleari artici di Novaya Zemlya e affondato a 33 metri di profondità in uno dei fiordi dell'arcipelago. Un’operazione che richiese un certo sforzo:  il sottomarino venne appesantito con 'asfalto per sigillare i suoi reattori pieni di carburante e poi fu praticato un foro nel serbatoio di zavorra di poppa.

Ma Digges avverte che questa soluzione non durerà per sempre: «Il sigillante attorno al reattore aveva lo scopo di evitare perdite di radiazioni fino al 2032. Ancora più preoccupante è che il carburante altamente arricchito del K-27 potrebbe, nelle giuste circostanze, generare una reazione nucleare a catena incontrollata che porterebbe a a un significativo rilascio locale di radiazioni».

Nel 2023 un altro sottomarino, il K-159, è stato aggiunto al catalogo dei sommergibili nucleari  tossici  e la sua posizione a nord di Murmansk, a cavallo di alcune delle zone di pesca più fertili del Mare di Barents e delle rotte di navigazione più trafficate, lo ha reso fonte di particolare ansia.  Il K-159  era già un involucro completamente arrugginito lungo 93 metri e abbandonato da anni quando affondò a 240 metri mentre veniva rimorchiato in un cantiere navale di Murmansk per lo smantellamento, uccidendo 9 marinai che erano a bordo. Digges fa notare che «A differenza del K-27, tuttavia, non furono adottate misure di sicurezza per proteggere i due reattori del K-159 prima che affondasse, il che significa che affondò ancora carico di 800 chilogrammi di combustibile di uranio esaurito. Un rilascio radioattivo da questo relitto sarebbe devastante non solo per l’industria della pesca norvegese, ma anche per quella russa». 

Il progetto per recuperare i sottomarini nucleari sovietici dai fondali  – il cui costo stimato è di circa 300 milioni di euro  – era stato preso in considerazione dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), che insieme alla Norvegia e ad alti Paesi europei stavano sviluppando uno studio di fattibilità per il recupero tecnologicamente impegnativo. Ma da quando è iniziata la guerra in Ucraina la BERS ha annullato progetti e possibili finanziamenti e il Cremlino ha fatto poco e nulla. 

Nel settembre 2022, un team di funzionari, ingegneri e scienziati nucleari russi si è riunito per trovare un modo per riprendere l’operazione di recupero  l’operazione di salvataggio, ma gli incontri si sono bloccati su un problema insormontabile: la Russia semplicemente non ha la tecnologia per intraprendere l’operazione di recupero. E’ stata una nave olandese a riportare in superficie il Kursk nel 2001. Con la guerra che continua a infuriare in Ucraina, è improbabile che i Paesi Bassi diano nuovamente aiuto ai russi.

Digges conclude: «Questo lascia l’ambiente nell’Artico russo in uno stato che è, nella migliore delle ipotesi, imprevedibile. Se Mosca continuasse a dare priorità alla guerra rispetto all’ambiente, non farebbe altro che prolungare una minaccia radioattiva che è – come hanno dimostrato due decenni di progressi e buona volontà internazionale – risolvibile. Quel che è chiaro, tuttavia, è che la Russia non può farcela da sola».

Umberto Mazzantini

Scrive per greenreport.it, dove si occupa soprattutto di biodiversità e politica internazionale, e collabora con La Nuova Ecologia ed ElbaReport. Considerato uno dei maggiori esperti dell’ambiente dell’Arcipelago Toscano, è un punto di riferimento per i media per quanto riguarda la natura e le vicende delle isole toscane. E’ responsabile nazionale Isole Minori di Legambiente e responsabile Mare di Legambiente Toscana. Ex sommozzatore professionista ed ex boscaiolo, ha più volte ricoperto la carica di consigliere e componente della giunta esecutiva del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano.