I PFAS nel sangue fanno dormire peggio e danneggiano i reni e il microbioma intestinale
Le sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche (PFAS), note anche come "sostanze chimiche eterne" perché impiegano decenni per degradarsi naturalmente, sono utilizzati in pentole antiaderenti, tessuti impermeabili e schiume antincendio e sono stati associati a livelli più alti di colesterolo, minore fertilità, ritardi nello sviluppo nei bambini e un rischio maggiore di alcuni tipi di cancro.
lo studio “Per-and polyfluoroalkyl substances and disrupted sleep: mediating roles of proteins”, pubblicato su Environmental Advances da un team di ricercatori statunitensi guidato da Shiwen (Sherlock) Li del Department of Population and Public Health Sciences dell’University of Southern California Keck School of Medicine, ha dimostrato che i livelli di PFAS nel sangue sono collegati a interruzioni di un pilastro fondamentale della salute: il sonno.
Si tratta del primo studio ad esaminare questa relazione nei giovani adulti e gli scienziati sono i primi ad approfondire i meccanismi molecolari sottostanti, identificando geni coinvolti nelle difese naturali del corpo e un ormone che regola il sonno.
Li spiega: «Poiché il corpo ha bisogno di dormire ogni giorno, se i PFAS interferiscono con il tuo sonno, ciò potrebbe avere effetti più immediati rispetto ad altri problemi di salute cronici. A lungo termine, un sonno scarso è stato collegato a esiti tra cui problemi neurologici e comportamentali, diabete di tipo 2 e malattia di Alzheimer. Oltre a fornire informazioni sulla biologia dell'influenza dei PFAS sul sonno, lo studio potrebbe fornire prove che suggeriscono una logica per una regolamentazione più attenta delle sostanze chimiche nocive. La qualità del sonno è un problema che riguarda quasi tutti, quindi l'impatto dei PFAS sul sonno potrebbe avere implicazioni politiche».
I ricercatori hanno raccolto campioni di sangue e informazioni sul sonno da 144 partecipanti, di età compresa tra 19 e 24 anni, che facevano parte dell’USC Children's Health Study . Sono state effettuate due serie di misurazioni a distanza di anni, con circa la metà dei partecipanti che ha contribuito a entrambe. I ricercatori fanno notare che «Dei 7 tipi di PFAS esaminati, 4 sono risultati significativamente associati a una riduzione del sonno o a una peggiore qualità del sonno: PFDA, PFHxS, PFOA e PFOS. Per i primi 3 di questi, i giovani adulti con livelli ematici nel terzo più alto dormivano in media circa 80 minuti in meno a notte rispetto a quelli nel terzo più basso. Anche gli alti livelli combinati di PFAS erano correlati a un sonno più breve. Per i PFOS, le alte concentrazioni ematiche erano significativamente collegate a problemi auto-riportati di addormentarsi, restare addormentati, svegliarsi o sentirsi stanchi durante le ore di veglia».
Tutti e 4 i PFAS, alcuni dei quali sono associati al cancro e a disturbi neurologici, dall'ADHD al morbo di Alzheimer, sono considerate "PFAS legacy". Sebbene ampiamente utilizzate dagli anni '50 ai primi anni 2000, da allora sono stati ampiamente eliminati a favore di composti simili con profili di sicurezza sconosciuti.
Per Li, «Potrebbe essere una questione di esposizione cumulativa nel temp. Quel che abbiamo misurato nel sangue è probabilmente guidato dall'esposizione fin dalla nascita, o persino da esposizioni prenatali».
Il team ha analizzato i 4 tipi di PFAS utilizzando database tossicologici e poi ha esaminato la sovrapposizione tra geni interessati dalle 4 sostanze e quelli correlati ai disturbi del sonno. I ricercatori hanno poi profilato un pannel di proteine, i prodotti dei progetti inscritti nei geni, dai campioni di sangue dei partecipanti. Su oltre 600 geni candidati, 7 attivati da PFAS sembravano influenzare il sonno. Un fattore importante è stato l’ HSD11B1, un gene orientato al sistema immunitario che a produrre il cortisolo, un ormone che svolge un ruolo importante nella regolazione del ritmo del sonno e della veglia.
Li spiega ancora: «Se l'espressione della proteina codificata da HSD11B1 viene interrotta, questo significa che anche i livelli di cortisolo potrebbero essere interrotti- Ciò, a sua volta, influisce sul sonno».
Un altro gene apparentemente importante nell'impatto del PFAS sul sonno, la catepsina B, è correlato alla funzione cognitiva e alla memoria. L'enzima risultante è un precursore delle proteine beta amiloidi, che si trovano nelle placche nei cervelli dei pazienti di Alzheimer. Livelli elevati dell'enzima sono stati collegati al declino cognitivo nell'Alzheimer, che ha le sue connessioni con i deficit del sonno.
Nel primo studio del suo genere, i ricercatori della Keck School of Medicine hanno scoperto che i problemi con i batteri intestinali e i metaboliti correlati possono aiutare a spiegare il legame tra "sostanze chimiche eterne" e danni renali.
Un altro studio, “The potential mediating role of the gut microbiome and metabolites in the association between PFAS and kidney function in young adults: A proof-of-concept study”, pubblicato su Science of The Total Environment da un altro team di ricercatori statunitensi guidato da Hailey Hampson, anche lei del Department of Population and Public Health Sciences dell’University of Southern California Keck School of Medicine, ha rivelato che la correlazione tra PFAS e danni renali potrebbe essere legata alla disregolazione del microbioma intestinale, composto da batteri e altri microrganismi che vivono nel tratto digerente.
I ricercatori Hanno scoperto che 4 anni dopo una maggiore esposizione ai PFAS si verifica una funzionalità renale peggiore e che i cambiamenti nel microbioma intestinale e nei metaboliti correlati spiegano fino al 50% di quella diminuzione di funzionalità. Questi risultati forniscono i primi indizi su come proteggere i reni dai danni correlati ai PFAS.
Il principale autore dello studio, Jesse Goodrich, professore associato di scienze della popolazione e della salute pubblica alla Keck School of Medicine, ha detto che «I nostri risultati sono un tassello importante del puzzle sui numerosi rischi per la salute dei PFAS, che possono fornire ai decisori politici informazioni che li aiutano a sviluppare politiche per proteggere il pubblico dall'esposizione a queste sostanze chimiche»
I ricercatori hanno analizzato i dati di 78 partecipanti, di età compresa tra 17 e 22 anni, iscritti al Southern California Children's Health Study. Il 56% del campione era ispanico, un gruppo che affronta un rischio sproporzionato di malattia renale cronica. All'inizio, i ricercatori hanno raccolto campioni di sangue e feci che hanno permesso loro di misurare l'esposizione al PFAS, i batteri del microbioma intestinale e i metaboliti circolanti (questi metaboliti, molti dei quali sono prodotti dal microbioma intestinale, sono presenti nel sangue). A un controllo realizzato quattro anni dopo, i ricercatori hanno raccolto un secondo ciclo di dati sulla funzionalità renale, scoprendo che «Quando l'esposizione a PFAS aumentava di una deviazione standard, la funzionalità renale era peggiore del 2,4% alla visita di follow-up». Poi i ricercatori hanno quindi eseguito un'analisi statistica per determinare se un terzo fattore, batteri intestinali e metaboliti correlati, contribuisse a questa associazione.
L'analisi ha rivelato due gruppi separati di batteri e metaboliti che hanno contribuito a spiegare l'effetto dell'esposizione a PFAS sulla funzionalità renale. Un gruppo ha spiegato il 38% del cambiamento nella funzionalità renale e un gruppo ha spiegato il 50% del cambiamento. Entrambi i gruppi di batteri e metaboliti hanno svolto attività benefiche, come la riduzione dell'infiammazione nel corpo, che sono state ostacolate quando l'esposizione a PFAS è aumentata.
La Hampson sottolinea che «Abbiamo visto che l'esposizione ai PFAS stava potenzialmente alterando la composizione del microbioma, associata a livelli inferiori di batteri benefici e metaboliti antinfiammatori più bassi».
I risultati forniscono una roadmap per i ricercatori che cercano di comprendere meglio il collegamento tra PFAS e salute renale: i ricercatori hanno osservato riduzioni nei metaboliti antinfiammatori, così come nei batteri che li producono, e aumenti nei metaboliti infiammatori e per la Hampson «Questo indica l'infiammazione e lo stress ossidativo come un potenziale meccanismo, quindi è un'area su cui può concentrarsi la ricerca futura».
Goodrich avverte che «Una limitazione dello studio è la sua piccola dimensione del campione. Sono necessari studi più ampi per determinare se e come i risultati possano essere utilizzati per proteggere dai danni renali indotti da PFAS».
Successivamente, il team di ricerca non si limiterà a misurare i metaboliti nel sangue, ma ne rileverà la presenza in tessuti corporei specifici, compresi i reni.