Eni fa causa per diffamazione a Greenpace e ReCommon: hanno messo in piedi una campagna d’odio
Nei giorni scorsi Eni ha notificato l’atto di citazione per presunta diffamazione che l’impresa petrolifera a partecipazione pubblica aveva prospettato in due occasioni, avviando nei mesi scorsi degli iter di mediazione, nei confronti di Greenpeace Italia e ReCommon. ENI ha citato in giudizio le due organizzazioni perché avrebbero messo in piedi «Una campagna d'odio» nei sui confronti.
Greenpeace Italia e ReCommon stigmatizzano l’attacco giudiziario di ENI come «Un tentativo per spostare l’attenzione dalla Giusta Causa da b noi intentata contro l’azienda nel maggio 2023 ed ora pendente davanti alle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione».
In un comunicato congiunto, le due organizzazioni evidenziano che «Mentre gli eventi climatici estremi diventano sempre più violenti e frequenti, in Italia assistiamo dunque a un paradosso: lottare contro la crisi climatica sta diventando sempre più pericoloso per chiunque - comunità scientifica, associazioni ambientaliste e singoli cittadini - provi a mettere in luce le responsabilità dell’industria dei combustibili fossili. Gli spazi democratici per questo genere di denunce si restringono sempre più: dai decreti governativi contro le proteste nonviolente, alle censure mediatiche nei confronti di scienziati o esponenti della società civile. A questo si sommano le cause intimidatorie promosse dalle compagnie dell'oil&gas, con ENI in prima linea: una delle tattiche legali più comuni utilizzate dalle aziende fossili per silenziare ogni critica verso il loro operato che contribuisce gravemente al degrado ambientale e alla crisi climatica. Le aziende fossili come ENI, cercando di zittire ogni voce che si leva in difesa del clima, non solo aggravano la crisi ambientale, ma minacciano alcuni pilastri fondamentali per la nostra società: la libertà di espressione e il diritto a un ambiente integro e vivibile. Nonostante questi tentativi intimidatori, la nostra determinazione nel difendere il pianeta resta incrollabile. Non ci fermeranno, continueremo a smascherare verità scomode per le aziende come ENI, informando e mobilitando la cittadinanza su ciò che loro cercano di nascondere», concludono le organizzazioni.
Per Greenpeace e ReCommon cause come quella promossa da ENI sono SLAPP (Strategic Lawsuit Against Public Participation, o cause strategiche contro la pubblica partecipazione): «Si tratta di cause civili - conosciute anche come querele temerarie - che sebbene siano spesso basate su accuse infondate, sono intentate da grandi gruppi di potere per disincentivare la protesta pubblica, sottraendo tempo o risorse economiche alle parti chiamate in causa, impedendogli di continuare la loro azione di denuncia perché costrette a difendersi da accuse strumentali. In altre parole, si tratta di uno stratagemma ormai ben collaudato per soffocare sul nascere ogni critica e ogni forma di protesta, ma che Greenpeace e ReCommon conoscono bene e che non fermerà la richiesta di abbandonare il gas e il petrolio, per dare un reale contributo alla transizione energetica di cui il nostro Paese e l’intero pianeta hanno urgente bisogno».
Intanto, l’ Associazione A Sud - Ecologia e Cooperazione annuncia che dopo una sentenza di primo grado deludente e in controtendenza rispetto ai trend di altri Paesi europei, i ricorrenti di Giudizio Universale tornano in tribunale rafforzati dagli esiti di ulteriori importanti contenziosi andati a sentenza in altri Paesi. Questa volta a discutere e decidere sulla sentenza di inammissibilità per “difetto assoluto di giurisdizione” della giudice di primo grado sarà la Corte d’Appello del Tribunale Civile di Roma.
Il team legale delle associazioni e cittadini che hanno promosso la causa Giudizio Universale fanno notare che «Contrariamente a quanto stabilito da diversi Tribunali europei, il Tribunale di Roma ha sostenuto l’inesistenza del diritto dei ricorrenti a chiedere di essere tutelati dalle conseguenze dell’emergenza climatica e l’insindacabilità delle scelte dello Stato italiano in tale ambito, in nome della separazione dei poteri».
Lucie Greyl, coordinatrice della campagna Giudizio Universale, aggiunge: «Una sentenza che abbiamo accolto con grande delusione e che ci sembra ancor più paradossale oggi, in un panorama preoccupante di crescente criminalizzazione dell’attivismo ambientale. Chi governa ha reso i tribunali luoghi in cui processare chi difende l’ambiente e non chi lo distrugge. Ma le vittorie in altri paesi di altri gruppi che anche dopo molti anni di battaglia sono riusciti a veder riconosciute le loro istanze ci dicono che siamo sulla giusta strada. E continueremo a percorrerla con determinazione, guardando con fiducia al collegio che dovrà ridiscutere il caso».
La Greyl si riferisce a sentenze come quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nei casi Klima Seniorinnen e altri V. Svizzera e Duarte Agostinho e altri V. Portogallo e 32 altri Paesi.
Nel primo caso, la Corte ha condannato la Svizzera per la mancata adozione di misure in materia climatica, riconoscendo di fatto la relazione tra difesa del clima e tutela dei diritti umani. Nel secondo caso, i giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso anche per il mancato esperimento dei rimedi interni rimandando dunque ai giudici nazionali il compito di pronunciarsi sull’adeguatezza delle politiche climatiche e sugli impatti che la mancata azione ha sui diritti umani. La dichiarazione di inammissibilità va dunque interpretata come una devoluzione alle giurisdizioni nazionali delle cause in materia.
Secondo il team legale di Giudizio Universale, «La Corte europea ha di fatto smentito le argomentazioni formulate dal Tribunale di Roma. Confidiamo dunque che la Corte di Appello possa riformarla, stabilendo il principio che i cittadini e la società civile possono rivolgersi a un Giudice per far valere i propri diritti minacciati dall’emergenza climatica, cui contribuisce anche lo Stato italiano per effetto della inadeguatezza delle misure adottate».
All’atto di appello è stato allegato il nuovo report scientifico “Estimates of fair share carbon budgets for Italy” commissionato da A Sud a tre scienziati del clima di fama internazionale: Setu Pelz, Yann Robiou du Pont e Zebedee Nicholls che analizzano il carbon budget dell'Italia, comparandolo al limite di riscaldamento globale di 1,5° C. Il team di scienziati ha utilizzato gli approcci metodologici basati sull'equità dell’European Scientific Advisory Board on Climate Change (ESABCC) che a giugno 2023 il Rapporto ESABCC utilizzato come base dalla Commissione europea per raccomandare l'obiettivo di riduzione delle emissioni dell'Ue per il 2040, in fase di adozione formale. Il dato che emerge dal report è univoco: «Secondo tutte le metodologie utilizzate, dalla più alla meno permissiva, gli scienziati confermano che l’Italia ha già esaurito il suo carbon budget (a seconda delle metodologie la data varia dal 2017 al 2023 come anno di riferimento per l’esaurimento della quota di emissioni nazionali compatibili con i target di Parigi)».
Salvo rinvii, la prima udienza dell’appello è stata fissata per il 29 gennaio prossimo e A Sud conclude: «A dispetto dell'urgenza di agire cui è informata, l’azione legale ha dunque davanti altri lunghi mesi di attesa. Un ulteriore paradosso, calcolando che il riscaldamento globale continua invece a galoppare senza aspettare nessuno».