Nel plancton marino microrganismi in grado di degradare le bioplastiche
Lo studio “Marine copepod culture as a potential source of bioplastic-degrading microbiome: The case of poly(butylene succinate-co-adipate)”, pubblicatio su Chemosphere da un team di ricercatori dell’Università di Pisa, dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), della Zhejiang Ocean University (ZJOU) e del Laboratorio congiunto Sino-Italiano ZJOU-Ispra, in collaborazione con l’Acquario di Livorno-Costa Edutainment e l’Azienda Servizi Ambientali di Livorno (ASA) ha dimostrato «Un microbioma associato al plancton allevato nei laboratori Ispra, è in grado di metabolizzare plastiche utilizzate anche in ambito marino, in tempi relativamente brevi e a temperature ambientali».
Lo studio nasce da un’idea di Camillo Palermo di ASA che è stata sviluppata dal team di scienziati guidato da Simona Di Gregorio dell'università di Pisa e ora l’Ispra dice che «Questi incoraggianti risultati portano a nuove ipotesi di utilizzo biotecnologico del plancton marino, in particolare nel contrasto all'inquinamento da bioplastiche e nella trasformazione di matrici marine contaminate (bioremediation)».
I ricercatori ricordano che «La maggior parte del plancton marino è costituito da una componente animale (zooplancton) e da una vegetale (fitoplancton); insieme costituiscono la base della catena alimentare marina e supportano i cicli vitali di tutti gli organismi acquatici. Lo zooplancton è rappresentato in maniera predominante dai copepodi, piccolissimi crostacei che vengono considerati “insetti del mare” proprio perché sono la componente animale più abbondante degli oceani. I copepodi si nutrono di fitoplancton, occupando in questo modo il livello trofico di base a supporto dell’intera catena alimentare marina, e costituiscono, a loro volta, le prede di numerosi organismi marini, primi fra tutti le larve di pesce. La strategia di alimentazione dei copepodi, che utilizza un sistema di filtrazione dell’acqua per concentrare le piccole cellule di fitoplancton, li fa diventare degli hotspot di biodiversità microbica, ossia concentratori di microorganismi; questi possono raggiungere quindi densità molto elevate nell’intorno dei copepodi, rispetto a quelle che si ritrovano nella colonna d’acqua. Tali comunità microbiche si adattano a crescere su substrati molto resistenti alla degradazione fra i quali macromolecole complesse come, ad esempio, la chitina, elemento principale dell’esoscheletro dei crostacei, cui i copepodi appartengono».
L’idea alla base dello studio è stata quella di verificare se, tra questi microrganismi associati ai copepodi, si potessero isolare alcuni in grado di degradare macromolecole prodotte dall’uomo come ad esempio quelle che costituiscono le plastiche.
Ispra evidenzia che «L’insostenibilità ambientale delle petro-plastiche (derivate dal petrolio) e la loro persistenza, nell’ambiente, quasi infinita, hanno promosso lo sviluppo di materiali di nuova generazione, rappresentati dalle bioplastiche. Negli ultimi 20 anni, l’utilizzo delle bioplastiche è aumentato significativamente, anche in ambito marino, e con esso la necessità di identificare candidati microbici capaci di promuoverne la degradazione».
Dallo studio è emerso per la prima volta che «Alcune componenti batteriche associate ai copepodi allevati nei laboratori ISPRA di Livorno sono in grado di dare inizio, dopo 82 giorni e a temperatura ambiente (20° C), a un processo di idrolisi dei legami esteri del PBSA, una delle bioplastiche poliesteriche più comuni, proposte anche per la realizzazione di reti per il ripristino di praterie di Posidonia oceanica in ambiente marino degradato. Il microorganismo isolato dai copepodi ha mostrato la capacità di rompere la catena polimerica del PBSA agendo in particolare nelle regioni cristalline, generalmente meno accessibili alle attività degradative. I risultati di questo studio rappresentano un importante punto di partenza per approfondire la biodiversità delle comunità di microorganismi associate al plancton marino, potenzialmente utili in campo biotecnologico».