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Harris vs Trump? È rinnovabili contro petrolio: perché il voto statunitense decide il mondo che sarà

Crisi climatica ma anche rapporti con la Cina, competitività scientifica, investimenti: sulla rivista Nature l'analisi delle risposte dei due candidati per la Casa Bianca. La parola agli scienziati: una riconferma dell'ex presidente segnerebbe la fine della lotta al riscaldamento globale
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Quali rapporti si instaureranno con la Cina, quali misure verranno adottate a favore della competitività scientifica e, soprattutto, quali interventi si attueranno per contrastare la crisi climatica. Il confronto televisivo tra Kamala Harris e Donald Trump ha dato un’indicazione di quelli che saranno i probabili scenari mondiali se, alle elezioni statunitensi di novembre, a vincere sarà la candidata Dem o lo sfidante dei Repubblicani. Già da un’analisi a caldo del faccia a faccia era emerso che Harris ha avuto gioco facile nel rafforzare ancora di più l’endorsement nei suoi confronti da parte del mondo ambientalista. E ora, da un’accurata disamina da parte di autorevoli ricercatori delle risposte - e delle non risposte - fornite dai due candidati sui temi legati al clima, emerge con ancora più nettezza che la sfida per la Casa bianca deciderà in particolare se a dominare saranno ancora petrolio e gas o se, nei prossimi quattro anni, la produzione di energia da eolico e solare potrà svilupparsi in pieno e raggiungere livelli mai visti.

Un focus specifico sulle parole di Harris e Trump è stato pubblicato dalla rivista Nature, che ha giustamente sottolineato come le domande e le risposte riguardanti il clima sono arrivate soltanto alla fine del dibattito. «Harris ha sottolineato i disastri legati al clima e poi ha ricordato l’importanza degli investimenti storici dell’amministrazione Biden nell’energia pulita», si legge sulla prestigiosa rivista scientifica. Che però nota anche: «Nel corso del dibattito, tuttavia, Harris si è trovata sulla difensiva riguardo alla produzione di petrolio e gas e, in particolare, alle controverse tecnologie di “fracking” che hanno consentito alle aziende di espandere lo sviluppo di petrolio e gas negli Stati Uniti. Sebbene una volta abbia affermato di essere contraria, ha ripetutamente sottolineato il suo sostegno al fracking, indicando anche che sostiene l’utilizzo di una varietà di fonti energetiche». Quanto a Trump, viene sottolineato che «non ha risposto alla domanda e invece ha parlato delle importazioni dalla Cina, finendo con attacchi personali a Biden. All'inizio del dibattito, tuttavia, ha sottolineato la necessità di aumentare la produzione di combustibili fossili e ha avvertito che un'amministrazione Harris spingerebbe gli Stati Uniti a dipendere da "mulini a vento" e aziende agricole a energia solare, che sostiene occupano troppa terra e “non fanno bene all'ambiente”».

Su quest’ultima come su diverse altre esternazioni di Trump, i ricercatori ed esperti di clima, energia e transizione che si sono dedicati all’analisi del dibattito televisivo sono concordi nell’affermare che dall’ex presidente sono arrivate argomentazioni non fondate e che gli impianti di fonti rinnovabili possono anche avere un impatto ambientale o paesaggistico, ma che ciò non è nulla in confronto ai danni causati dall’utilizzo dei combustibili fossili, che producono inquinamento e gas climalteranti.

Michael Mann, uno scienziato del clima presso l'Università della Pennsylvania a Filadelfia, afferma che c'è spazio di miglioramento nell’approccio di Harris per affrontare il cambiamento climatico. In linea con l’amministrazione Biden, dice, adotta un «approccio dal lato della domanda» per ridurre le emissioni incentivando l’energia rinnovabile, che «non è abbastanza», dice. Ma almeno, sottolinea lo studioso, la candidata Dem raccoglie il consenso scientifico e riconosce gli «impatti catastrofici sulla salute umana», mentre un secondo mandato per Trump, che una volta chiamava il cambiamento climatico una bufala, «sarebbe la fine per l'azione per il clima come lo conosciamo», dice.

Ma per un dibattito centrato molto sull’economia, gli investimenti, i rapporti con la Cina e la competitività scientifica degli Usa, era inevitabile che anche sulle questioni legate al clima la discussione finisse sul versante dei costi. E infatti il fattore su cui gli intervistatori e anche i candidati hanno poi maggiormente insistito è stata la questione delle tariffe «e l’impegno da parte di entrambi gli schieramenti per mostrare chi sarà più duro con la Cina», afferma David Victor, scienziato presso l’Università della California, San Diego. Ciò potrebbe far aumentare il costo delle importazioni di tecnologia negli Stati Uniti e interrompere le catene di approvvigionamento di energia pulita, aggiunge.

Un altro aspetto del dibattito televisivo sottolineato dalla rivista Nature è che alla fine, comunque, né i candidati né i moderatori del dibattito hanno dedicato molto tempo alla questione riguardante la crisi climatica. «Se questo dibattito è un barometro di ciò che determinerà le elezioni, non è il clima e l’energia», non a caso afferma lo stesso Victor.

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.