Skip to main content

Confondere e sviare: come l’industria della carne combatte il fronte delle alternative vegetali

Changing Markets ha analizzato le strategie di disinformazione portate avanti da 22 delle più grandi aziende presenti in quattro continenti
 |  Approfondimenti

Confondere, rimandare, sviare. Come in tutte le guerre, anche in quella contro gli eccessi degli allevamenti intensivi e a favore di un’alternativa al consumo di prodotti di origine animale, il fattore psicologico gioca un ruolo chiave. Le armi di distrazione di massa vengono abbondantemente impiegate dall’industria della carne per distrarre nel momento più opportuno il nemico che issa la bandiera delle alternative vegetali, per disorientare con false informazioni chi è attratto dall’idea di una dieta cruelty-free, per creare scompiglio tra quelli che solitamente si affidano ai pareri degli scienziati facendogli piovere addosso teorie complottiste e pseudo ricerche finanziate da più o meno occulti alleati. Eccolo, il quadro che emerge dall’indagine “I nuovi mercanti del dubbio” che per diversi mesi ha tenuto impegnati attivisti e ricercatori della fondazione Changing Markets. Pubblicato in anteprima sul sito dell’organizzazione nata con l’obiettivo di favorire un’economia più sostenibile e di denunciare le pratiche irresponsabili portate avanti da ampi settori del mercato internazionale, sono ora disponibili anche una versione sintetica in italiano del documento e un focus sul «caso di studio Italia» relativo alle recenti restrizioni nell’etichettatura dei prodotti vegetali e al divieto di coltivare carne in laboratorio.

La ricerca è finalizzata a dimostrare come i grandi produttori di carne e latticini lavorano per impedire una complessiva strategia di controllo delle emissioni di gas serra nell’industria alimentare e di contrasto ai cambiamenti climatici. L’influenza del cosiddetto Big Meat and Dairy risulta dall’analisi di 22 delle più grandi aziende di carne e latticini in quattro continenti «insieme ai loro potenti gruppi commerciali». Il risultato? «Porte girevoli, conflitti di interessi e accesso privilegiato ai principali politici consentono all’industria globale dell’allevamento di bloccare il monitoraggio e la regolamentazione delle emissioni», denuncia la fondazione Changing Markets. «I giganti del settore abusano del controverso parametro del Potenziale di riscaldamento globale (GWP) del metano per minimizzare l’impatto climatico del bestiame, finanziando gli scienziati per gettare fumo negli occhi dei politici». E ancora: «Le tattiche di greenwashing, le false affermazioni sul clima e la disinformazione mirata alla Gen Z sottolineano l’urgente necessità di una legislazione più severa sull’industria della carne e dei latticini».

Le tattiche impiegate sono analoghe a quelle utilizzate in passato dall’industria del tabacco e, più recentemente, da quella dei combustibili fossili. Tattiche fatte di massicci investimenti in marketing e comunicazione, divulgazione di ricerche ad hoc commissionate e ben pagate. E poi campagne, portate avanti soprattutto attraverso i social network, finalizzate a confondere le idee, deviare l’attenzione da ciò che più conta, far rimandare le decisioni necessarie per rendere meno impattante il sistema alimentare, considerato che attualmente circa un terzo delle emissioni totali di gas serra proviene da questo settore e, di questa quota, «circa il 60% proviene dall’agricoltura animale, che da sola costituisce la più grande fonte di emissioni di metano prodotte dall’uomo». 

L’indagine mostra il potere dei gruppi di lobby della carne che combattono per evitare una legislazione meno favorevole nei loro confronti rispetto ai limiti di emissioni di gas serra. Minori finanziamenti o maggiori restrizioni per questo settore, infatti, rischierebbero di favorire una più diffusa adozione di abitudini alimentari a base di proteine vegetali( che pure risultano più salutari sulla base di diversi studi condotti da molteplici enti). Negli Stati Uniti, viene ad esempio sottolineato, «confrontando i prodotti alimentari di origine animale rispetto alle alternative, verso i primi ci sono finanziamenti pubblici maggiori di circa 800 volte con un volume di denaro impiegato nel lobbismo 190 volte superiore rispetto alle alternative. E nell’Unione europea le cose non vanno affatto meglio: «La differenza è di circa 1.200 volte per quanto riguarda i finanziamenti pubblici e di 3 volte il denaro impiegato nel lobbismo a favore dei prodotti alimentari di origine animale».

Restringendo ulteriormente i confini dell’indagine, particolarmente interessante è il «caso di studio» dedicato da Changing Markets al nostro paese. Lo scorso autunno, il governo Meloni non solo ha chiuso la strada alla carne creata in laboratorio, ma ha anche imposto il divieto alla denominazione di carne per i prodotti trasformati contenenti proteine vegetali.

La fondazione che ora punta il dito contro “i nuovi mercanti del dubbio” che agiscono a livello globale, in quel periodo aveva focalizzato l’attenzione su quel che avveniva a livello di comunicazione in Italia, e in particolare su quel che si muoveva a livello di social network.  Ebbene, da quell’indagine, confluita poi nel documento titolato “Verità, menzogne e guerre culturali”, emerge una «notevole presenza di disinformazione sui social media riguardante la carne e latticini» in particolare tra il marzo 2023 e il febbraio 2024. Ovvero, il periodo in cui sono avvenute le prime discussioni sul divieto fuori e dentro il Parlamento italiano, il via libero definitivo al divieto stesso e le proteste di allevatori e agricoltori contro la carne sintetica che hanno avuto luogo all’inizio del 2024. «Durante questo periodo abbiamo rilevato 240.000 post sui social media contenenti disinformazione, con 1,27 milioni di engagements e 125.000 account diversi che hanno contribuito a questa discussione». Il refrain era «protezione della nostra cultura e della nostra tradizione». 

Dallo studio emergono «picchi di disinformazione che sembrano strategici, sincronizzati con la conferma del divieto di produzione di carne coltivata». Emerge anche una seconda cosa, e cioè una gran massa di post provenienti da Stati Uniti e Regno Unito: «I post in lingua inglese si basavano su teorie cospirative come il Grande Reset e le affermazioni anti-salute verso la carne coltivata, incoraggiando gli altri paesi, in particolare altri paesi europei, gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Australia, a seguire l’esempio dell’Italia nella “lotta contro l’élite globale”». E anche un terzo fattore emerge da questa indagine, condotta sui social media da Changing Markets coinvolgendo la società di consulenza Ripple Research, che ha estratto i dati utilizzando la tecnologia di opinion mining e sfruttando gli algoritmi di Natural Language Processing (NLP) e le tecniche di apprendimento automatico: un terzo degli influencer che hanno pubblicato prevalentemente in lingua inglese «erano apertamente affini a ideologie di estrema destra».

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.