A trent’anni dalla riforma dei porti italiani, non tutto è andato per il meglio
La riforma dei porti, iniziata con la legge 84/94 che istituiva le Autorità portuali, poi più volte novellata fino ad arrivare alle Autorità di sistema portuale, è stata una buona riforma?
Sono sufficientemente vecchio ed ho avuto la fortuna di vivere la portualità italiana prima della legge sopra richiamata e successivamente vederne gli effetti dopo la promulgazione.
Ricordo che ho avuto anche la ventura di essere stato l’ultimo Capo Ufficio del Lavoro portuale di un Compartimento Marittimo sede di Compagnia di lavoratori portuali, quelli definiti storicamente Camalli nella portualità genovese; tuttavia di lavoratori portuali, inquadrati in unica compagnia di lavoratori del porto e governati da un proprio Console (proprio così si chiamavano) erano ben forniti gli scali marittimi e, proprio per eliminare quel regime di monopolio del lavoro portuale, trent’anni fa venne proclamata la legge di riordino del lavoro portuale, permettendo in tal guisa di allineare il nostro Paese con le linee politiche di Bruxelles.
A distanza di tempo, forse, qualche riflessione si potrebbe anche fare: a mente lucida e serena potremmo analizzare vantaggi e svantaggi di quel riordino che, ammettiamolo, fu una vera rivoluzione che si abbatté sui porti italiani.
Confesso che il mondo delle Capitanerie di Porto perse o, meglio, iniziò a perdere le attribuzioni nella gestione quotidiana dei porti che, dall’emanazione del Codice della navigazione (1942) in poi, avevano costituito l’ossatura della professione degli ufficiali e sottufficiali del Corpo delle Capitanerie di Porto, e segnarono pesantemente la storia della portualità italiana, nel bene e nel male, se (ipotetico) male c’è stato.
Dunque, da quel momento le banchine e le aree portuali e il relativo lavoro nei porti, necessario alla movimentazione delle merci, passano di mano e i controlli come la disciplina delle attività medesime vengono passate ai presidenti delle Autorità portuali prima e ai presidenti delle Autorità di sistema portuale subito dopo.
Il ruolo del comandante del porto viene a ridursi tantissimo: si passa all’amministrazione attiva e diretta dei porti come, ad esempio, assegnare gli accosti in banchina, gestire le operazioni relative alle movimentazioni delle merci, concedere le concessioni di pubblico demanio marittimo e così via, all’azione generica di polizia portuale che ben poco ha a che vedere con l’azione dinamica delle attività portuali vere e proprie.
Non vorrei sembrare un nostalgico legato ad altri tempi (anche se la mia anagrafe mi consentirebbe di farlo), tuttavia alla luce dei fatti (e misfatti) avvenuti nei porti italiani e, segnatamente, il caso ancora in corso di definizione giudiziaria avvenuto nello scalo ligure – il primo porto nazionale! – mi sorge spontaneo un dubbio: erano poi così male amministrati i porti italiani ai tempi del comandante del porto, un ufficiale incardinato nei ranghi della Marina Militare e uso ad osservare pedissequamente regole e regolamenti dettati dall’Ordinamento civile e militare, oltre che dalla propria deontologia militare, forgiata in Accademia navale e custodita tra le stellette che ornano il colletto della divisa e sempre col motto risuonante nelle orecchie – Patria e Onore! – come un mantra?
Non ricordo che qualche lievissima deroga comportamentale a questa linea di principio che ispirava i comandanti dell’epoca pre-riforma, e certamente mai a memoria mia, richieste di soldi o fiches per il casinò a imprenditori del porto; dai comandanti si entrava in punta di piedi, accompagnati dal piantone, e si poteva parlare soltanto di cose lecite e non certo di concessioni trentennali di aree e specchi acquei portuali.
I comandanti delle Capitanerie di Porto rispondevano alle leggi e osservavano il giuramento prestato: essi rappresentavano lo Stato.