Ci sarà un vero cambio di paradigma per ripensare le strategie di gestione dei fiumi?
Leggendo le cronache locali capita di imbattersi, con una certa frequenza, in accesi conflitti tra associazioni ambientaliste e gestori dei corsi d’acqua alle prese con interventi, non sempre giustificati, indotti dal contrastare il rischio idraulico. Il tema del contendere riguarda il taglio indiscriminato di vegetazione riparia, l’artificializzazione degli alvei, la realizzazione di nuovi invasi, ecc. Eppure, già dalla emanazione della Direttiva Acque sembrava aperta la strada per una inversione di tendenza delle politiche adottate fino ad oggi nella gestione dei fiumi.
Le fasce di vegetazione riparia, il monitoraggio biologico, le comunità acquatiche, le quattro dimensioni del fiume, fanno ormai parte del linguaggio che accomuna istituzioni di ricerca, universitarie e di controllo con coloro, molti, che oggi si sono appassionati all’ambiente fluviale e alle sue unicità. Con la Direttiva iniziano a diffondersi sul territorio nazionale i Contratti di fiume, una nuova frontiera della partecipazione con il grande pregio di mettere a confronto punti di vista, spesso contrastanti, sulla gestione dei corsi d’acqua. Iniziative che evidentemente non hanno consentito di modificare l’approccio prevalente sulla gestione dei reticoli fluviali, ancora vincolato a soluzioni tecnocratiche.
Una inversione di tendenza di tale cultura sembrava intravvedersi nelle Infrastrutture verdi, concepite per rafforzare il capitale naturale del Continente europeo. Quella rete di aree naturali e seminaturali, progettata e gestita in maniera da fornire un ampio spettro di servizi ecosistemici e che in ambito fluviale si doveva tradurre nel ripristino di vere e proprie fasce riparie boscate.
Tra le soluzioni proposte, spiccavano i benefici prodotti dai boschi alluvionali, come l’azione filtro che essi svolgono, la ricarica della falda freatica, la prevenzione dall’erosione e, non ultimo per importanza, la funzione di corridoio ecologico. Senza considerare il vantaggio economico e ambientale, rispetto a soluzioni di natura esclusivamente tecnica, che in genere interrompono il collegamento del fiume con la pianura alluvionale, elemento fondamentale per specie animali e vegetali di importanza comunitaria.
Una cultura scientifica rinnovata è riuscita a influenzare l’azione comunitaria inducendola a considerare il ripristino delle pianure alluvionali, per giungere quindi anche alla riqualificazione degli ecosistemi acquatici con gli obbiettivi dell’Agenda 2030.
La Commissione europea, ispirandosi a tali principi innovativi, ha proposto per questo importante traguardo temporale l’abbattimento degli sbarramenti, restituendo la continuità del deflusso ad almeno 25.000 km di corsi d’acqua. Anche se non è del tutto chiaro in quanti di questi tratti chilometrici sarebbe impegnata l’Italia. Nell’Agenda viene affermato il concetto di fiume a scorrimento libero, eliminando o adeguando soprattutto gli sbarramenti che impediscono il passaggio di pesci migratori e il transito dei sedimenti. Poco sulle pianure alluvionali, a dire il vero, lasciando il sospetto che ancora prevalgano le istanze avanzate da alcuni paesi dell’Unione (con presenza di salmoni ed erosione delle coste), nonché i timori legati alla consapevolezza che riaprire le pianure alluvionali significherebbe una rivoluzione culturale di portata epocale, politicamente impegnativa, socialmente costosa e difficilmente attuabile, anche se risolutiva.
Con la recente approvazione del Regolamento sul ripristino della natura (Nature restoration law) si è messo ordine tra gli indirizzi dell’Agenda 2030, affermando il fondamentale passaggio dalla protezione e conservazione della natura al suo ripristino. L’adozione del Regolamento ha chiuso un percorso di elaborazione culturale e scientifica, nato a fatica molti anni fa, che invita ad aprire nuovi scenari nei paesi dell’Unione Europea, anche per la riqualificazione fluviale.
Sottoposto a un iter travagliato, per i conflitti legati agli interessi delle varie lobby, in seguito ai molti emendamenti il Regolamento ha perso la forza originale, specie su alcuni aspetti sostanziali. Definendo il concetto di fiume a “scorrimento libero”(art. 3, c. 14a), sembrava ambire chiaramente all’adozione di strategie che tenessero conto delle tre dimensioni fisiche (longitudinale, laterale e verticale) nel ripristino degli ambienti fluviali.
Ma poi, affrontando il tema della connettività fluviale, il Regolamento pone condizioni nella scelta degli sbarramenti da eliminare (art. 7, c. 2) che favoriscono la posizione di chi stenta ad abbandonare le soluzioni tradizionali per sostituirle con altre basate sulla natura, sebbene con pari o maggiore efficacia.
Appare infatti ovvio che se, per essere rimosso, uno sbarramento non deve più assolvere la funzione per cui è stato creato, non si facilita una scelta propositiva e rivoluzionaria, ma si asseconda lo spirito conservatore di chi è portato a mantenere le cose come stanno.
D’altronde, soffermandoci sui risultati che l’Agenda 2030 ha già prodotto in Europa, seppur limitatamente alla dimensione longitudinale (Damremoval, 2022), ci si rende conto come nella realtà italiana, certi principi facciano fatica a diffondersi.
Se quanto premesso non è di buon auspicio per modificare una visione radicata nel passato, anche limitandosi a liberare la sola dimensione longitudinale, sono facilmente immaginabili le resistenze a intervenire sulle altre dimensioni (che implicano la restituzione di spazio agli alvei su larga scala, il rispetto della vegetazione riparia, ecc.) e viene da chiedersi se mai ci sarà un vero cambio di paradigma per ripensare le strategie di gestione degli ambienti fluviali.
C’è da temere che la strada intrapresa dalle associazioni ambientaliste sarà ancora lunga.