Tsunami, a 20 anni dalla tragedia nell’Oceano Indiano il rischio cresce anche nel Mediterraneo
Il 26 dicembre 2004, neanche il tempo di festeggiare il Natale, un terremoto di magnitudo 9,1 si abbatté al largo dell'Indonesia, scatenando un enorme tsunami che travolse l'Oceano Indiano: onde alte fino a 51 metri hanno portato devastazione fino a cinque chilometri nell'entroterra di Aceh, in Indonesia, per estendersi poi a Thailandia, Sri Lanka, Maldive e India.
Le onde hanno viaggiato con una velocità in grado di toccare 800 km/h, tanto che gli impatti si sono avvertiti anche in Somalia e Tanzania; le onde hanno raggiunto persino luoghi lontanissimi come Messico, Cile e addirittura l'Artico.
Nel complesso si contarono 230mila morti in 14 Paesi, oltre 1,7 milioni di sfollati e danni economici per 10 miliardi di dollari. In occasione del ventennale della tragedia, il presidente dell’Assemblea Onu Philémon Yang l’ha definito il «primo disastro globale del XXI secolo e uno dei più devastanti della storia recente», il cui eco si avverte ancora oggi: «Ci ha mostrato davvero come pericoli così a bassa frequenza e ad alto impatto possano avere ripercussioni sull'intero sistema globale e su più aree geografiche», rendendo evidente che i problemi transfrontalieri richiedono soluzioni in grado di superare i confini dei singoli Stati.
Adesso il 75% delle comunità costiere nelle aree ad alto rischio ha ora accesso alle informazioni di allerta precoce in caso di tsunami, rispetto al 25% di vent’anni fa, ed esistono 27 centri nazionali di allerta tsunami che possono emettere avvisi entro pochi minuti dagli eventi sismici.
Tuttavia, anche le sfide sono diventate più complesse: «Il cambiamento climatico sta amplificando la frequenza e la gravità dei disastri legati all'acqua», avverte l’Onu, e l’Italia non è esente dal rischio.
Un nuovo studio pubblicato su Scientific reports a valle dei progetti europei di ricerca Savemedcoasts2 e Tsumaps-Neam – entrambi coordinati dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) – mostrano che, entro i prossimi 50 anni, la probabilità di avere nel Mediterraneo onde di tsunami che causano inondazioni di 1-2 metri potrebbe aumentare dal 10% al 30%.
«Questo significa un significativo incremento del rischio, in particolare per le coste più basse del Mediterraneo, una delle aree più popolate al mondo», spiega Marco Anzidei, ricercatore dell’Ingv, coautore dello studio e coordinatore del progetto Savemedcoasts2.
Eppure soltanto 1 Comune italiano – ovvero Minturno, in provincia di Latina – ha già ricevuto il prestigioso riconoscimento di “Comune Tsunami ready” da parte della Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco (Unesco-Ioc), a valle di quattro anni di preparazione per aumentare la sicurezza di territorio e cittadini. Un esempio che oggi anche gli altri Comuni costieri farebbero bene a seguire, velocemente.