Record di eolico e solare, ma in Italia la produzione di elettricità deriva ancora per oltre la metà da combustibili fossili
L’Italia dal punto di vista energetico? Meno dipendente dall’estero, con importazioni nette di energia diminuite del 9,9% su base annua e capace di segnare un record storico per le produzioni eolica e fotovoltaica, che si attestano rispettivamente a 23,3 TWh e 30,7 TWh (con un incremento complessivo dell’11,1% su base annua). Ma è anche un Paese che nel 2023 ha registrato, rispetto all’anno precedente, un aumento dell’1,5% del consumo interno lordo di petrolio e di prodotti petroliferi e che, soprattutto, vede ancora il maggior apporto alla produzione di energia elettrica costituito dal termoelettrico non rinnovabile il quale, nonostante un calo del 19,3%, si attesta ancora sul 55,8% del totale (5,9% da carbone, 4,6% da prodotti petroliferi e altri combustibili e 45,3% da impianti alimentati con gas naturale).
È questa la fotografia che emerge dalla “Relazione annuale sulla situazione energetica nazionale 2024” realizzata dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. La fotografia è caratterizzata da molte luci, ma contiene anche diverse ombre. Il ministro Gilberto Pichetto Fratin, presentando il documento, ha richiamato l’attenzione sulle prime. Ma a leggere per intero le 150 pagine del rapporto, risultato piuttosto evidenti anche le seconde. «Il Rapporto, frutto di un prezioso lavoro tra le istituzioni e realtà di riferimento del settore – ha spiegato il ministro – ci restituisce l’immagine di un Paese che, nonostante le difficili congiunture internazionali, va nella direzione auspicata anche dal nostro Pniec: quella di una maggiore sicurezza energetica e dello sviluppo di fonti rinnovabili».
Come sottolinea il Mase, nel 2023 è diminuita la dipendenza del nostro Paese rispetto agli approvvigionamenti provenienti dall’estero, con la quota di importazioni nette rispetto alla disponibilità energetica lorda che è scesa dal 79,2% del 2022 al 74,6% dello scorso anno. Non meno importante è stato il calo nelle importazioni di combustibili solidi (-38%), di energie rinnovabili e bioliquidi (-22%) e di gas naturale (-15%), mentre è stata meno consistente la diminuzione dell’import netto di petrolio e prodotti petroliferi (-2,5%).
Altro innegabile punto di luce di questa relazione è che la produzione nazionale di energia elettrica ha fatto segnare un incremento del 4,2% rispetto al 2022 «attribuibile soprattutto all’aumento dell’energia prodotta da fonti rinnovabili». Le quali, si legge nel documento, hanno consentito produzioni record, e così per il 2023 la quota dei consumi energetici complessivi coperta da rinnovabili è stata stimata al 19,8%, in aumento di circa 0,7 punti percentuali rispetto al 2022.
Tutto bene? Fino a un certo punto, perché i combustibili fossili restano maggioritari nella produzione di elettricità e, oltre ai danni ambientali, anche le ricadute economiche di ciò sono tutt’altro che da sottovalutare: nel 2022, a seguito dell’invasione della Russia ai danni dell’Ucraina, c’era stata un’impennata dei costi e la fattura energetica italiana equivaleva al 5,8% del Pil. Nel 2023, si legge nella relazione del Mase, è stata registrata una diminuzione della spesa energetica totale pari al 4,2%, che porta comunque ad attestarsi a prezzi correnti su circa 101,6 miliardi di euro.
La componente gas è rimasta prevalente. La domanda nel 2023 è stata di 61,7 miliardi di metri cubi, in riduzione del 10,3% rispetto all’anno precedente. «La riduzione è giustificata dalla persistente stagnazione che ha impatto su tutti i settori economici e produttivi – si legge nella relazione – all’uso limitato del gas per la produzione di energia elettrica, al piano di contenimento dei consumi di gas e alle condizioni climatiche particolarmente miti nel corso del 2023». Resta il fatto che la produzione di energia elettrica è rimasta per il 45,3% ancorata agli impianti alimentati con gas naturale.
Diminuire la percentuale di fonti fossili e accelerare sulle rinnovabili, come ha recentemente spiegato tra gli altri il direttore scientifico del Kyoto club Gianni Silvestrini, consentirebbe di abbassare in misura molto maggiore le bollette elettriche. Non solo. Come evidenziato dalla relazione del Mase in una sezione dedicata al tema «investimenti in tecnologie “verdi” e domanda di lavoro», spingere sulle rinnovabili avrebbe importanti ricadute anche sul piano occupazionale. Nel testo vengono infatti riportati una serie di dati che, in sintesi, «supportano l’ipotesi che la scelta di investire in tecnologie “verdi” è correlato positivamente – almeno nel breve periodo – alla domanda di nuove figure professionali e, nelle aziende con un minimo di struttura organizzativa, anche ad una crescita netta dell’occupazione».
Questa sezione del documento si basa su alcune ricerche sviluppate dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp). E, intervenendo sulla relazione del Mase, l’ente pubblico di ricerca vigilato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sottolinea proprio il fatto che la «transizione verde è ancora limitata ma spinge la domanda di lavoro». Spiega il dirigente di ricerca dell’Inapp Andrea Ricci: «I dati ci dicono che l’adozione di tecnologie verdi nel periodo 2019-2021 si è accompagnata ad un incremento della domanda di lavoro, misurata dal rapporto tra il numero di nuove figure professionali che le imprese stavano cercando nel 2022 e il totale dei loro occupati (+1,3%)».
L’indagine è stata realizzata dall’Inapp su un campione rappresentativo di 30mila società di persone e di capitali e, anche in questo caso, il quadro che ne deriva è fatto di luci e ombre. Dall’analisi risulta infatti che solo il 15% delle imprese con almeno un dipendente, nel periodo 2019-2021, ha adottato tecnologie per la transizione verde dei processi produttivi, «una percentuale che corrisponde a circa l’1,7% delle spese totali per investimenti per un ammontare di circa 174 euro per dipendente». Il dirigente Inapp evidenzia però il trend comunque positivo: «Nonostante la transizione verde sia piuttosto limitata nel sistema imprenditoriale – dice Ricci – emergono segnali interessanti per ciò che concerne le ricadute sul mercato del lavoro, a partire appunto dalla domanda di lavoro e, in prospettiva, per la crescita economica».