L’evoluzione del cervello dei primati riflette le sfide sociali e alimentari che affrontano
Diversi studi di laboratorio condotti su esseri umani e macachi hanno rilevato che alcune regioni del cervello, coinvolte in specifici processi cognitivi, venivano attivate durante le interazioni sociali o la ricerca di cibo. Ma queste conclusioni sono valide nell’ambiente naturale? E l'evoluzione del cervello dei primati è stata condizionata da queste attività? A queste le domande ha risposto lo studio “Linking the evolution of two prefrontal brain regions to social and foraging challenges in primates”, pubblicato su Elife da un team interdisciplinare di specialisti in neuroscienze cognitive, ecologia comportamentale ed evoluzione, guidato de Sébastien Bouret dell’Institut du cerveau et de la moelle épinière (CNRS/INSERM/SU) et Cécile Garcia du laboratoire Éco-Anthropologie (CNRS/MNHN/UPC) e che ha misurato il volume di due regioni della corteccia prefrontale in 16 specie di primati, identificate sia dalle loro relazioni filogenetiche che dalle loro caratteristiche socio-ecologiche.
Al Centre national de la recherche scientifique (CNRS) ricordano che «Molti studi si sono concentrati sui meccanismi alla base dell’evoluzione delle capacità cognitive nei primati, utilizzando in particolare le dimensioni del cervello come indicatore. Tra le ipotesi maggiori si segnalano quella denominata “cervello sociale” e quella denominata “cervello ecologico”. Il primo presuppone che quanto più complesse sono le interazioni sociali, tanto più richiedono elevate capacità cognitive, mentre il secondo spiega lo sviluppo di queste capacità attraverso la complessità delle rappresentazioni mentali dell'ambiente nel contesto del foraggiamento. Studi di laboratorio suggeriscono che i sistemi cerebrali potenzialmente coinvolti nella cognizione sociale e nel foraggiamento si sovrappongono parzialmente, in particolare nella corteccia prefrontale, sede delle funzioni esecutive, che organizzano il comportamento nello spazio e nel tempo. Ma queste conclusioni non sono necessariamente trasferibili all’ambiente naturale, che implica comportamenti molto più complessi».
Per questo il nuovo studio ha esaminato il polo frontale (PF), direttamente coinvolto nella metacognizione (pensare a i propri processi mentali) e la corteccia prefrontale dorsolaterale (CPFDL), coinvolta nella memoria di lavoro. In laboratorio è stato visto che la PF è coinvolta contemporaneamente sia in certe forme di interazione sociale che di pianificazione, mentre la CPFDL sembra coinvolta solo nei processi di pianificazione. Per capire se questa relazione sia presente anche nell’ambiente naturale e possa spiegare le differenze cerebrali tra le specie, gli scienziati hanno effettuato analisi neuroanatomiche su cervelli di primati provenienti da diverse collezioni, in particolare quelle del MNHN, e su database imaging, quindi hanno ricercato dati socio-ecologici nella letteratura scientifica e hanno così dimostrato che «I volumi della PF e della CPFDL erano entrambi legati alla distanza media che gli animali percorrono ogni giorno, soprattutto per trovare cibo nella loro ambiente naturale. Quindi, le specie che devono percorrere distanze più lunghe avrebbero probabilmente migliori capacità di metacognizione (da parte della PF) e di memoria
lavoro (dalla CPFDL). Proprio come osservato in laboratorio, solo la PF ha mostrato un collegamento significativo con una variabile associata alla complessità sociale (la densità dei gruppi)».
I ricercatori concludono: «Questi risultati tendono quindi a dimostrare che i processi neuro-cognitivi identificati in laboratorio possono essere collegati alla diversità dei comportamenti dei primati nel loro ambiente naturale. Lo studio dovrebbe quindi consentire di sviluppare un quadro teorico comune per superare i confini tra ecologia comportamentale (in un ambiente naturale) e neuroscienze cognitive (in laboratorio)».