Anche gli (altri) animali sanno attribuire una funzione agli oggetti
La domanda è: gli animali sanno attribuire agli oggetti funzioni adatte a degli scopi? Come sappiamo, sia gli uomini sia diverse specie animali lo fanno molto bene. Gli oggetti possono essere anche costruiti o inventati, l’importante è che abbiano una finalità, per esempio, banalmente, una forchetta per mangiare, un cellulare per comunicare, mandare messaggi eccetera, o dei bastoncini che alcuni scimpanzé costruiscono con le loro mani e che poi adoperano per estrarre le termiti dai termitai.
Comunque sia, agli oggetti tutte queste funzioni vengono sempre assegnate da qualcuno, uomo o animale che sia. In quest’ultimo caso abbiamo diversi esempi, ma prima di parlarne dobbiamo stabilire di che cosa c’è bisogno per trovare una relazione tra un oggetto, l’uso che se ne vuole fare e da parte di chi. Quindi la domanda fondamentale è che cosa deve possedere chi vuole utilizzare un oggetto per uno scopo specifico. Per quest’ultima domanda la risposta più ovvia è che debba possedere un cervello. D’accordo, ma questo non basta perché anche un calcolatore ha un cervello e potrebbe fare qualsiasi cosa, per esempio risolvere delle equazioni o fare dei calcoli molto complessi, l’importante è saper implementare nel suo cervello elettronico un programma adatto per farglielo fare (potrà eseguire questi compiti molto più velocemente di un essere umano), anche se poi alla fine non saprà mai che cosa sia un’equazione o un calcolo. Un calcolatore non si pone mai autonomamente queste domande e chi lo ha costruito è consapevole del fatto che non possono nemmeno essergli rivolte perché non potrebbe e non saprebbe mai rispondere.
Non si tratta nemmeno di un problema di rappresentabilità perché una macchina, come in fondo è un calcolatore, non ha idee e non potrà nemmeno “pensare” di averle. Un calcolatore non solo non ha la possibilità di rappresentarsele mentalmente, ma non potrà nemmeno avere ed esprimere un’opinione su di esse. Qualcuno potrebbe dire che i calcolatori non sono stati costruiti per questo, cioè per avere delle idee, ma per risolvere una infinità di problemi pratici per l’umanità; pensiamo solo all’uso che se ne fa in medicina, nell’implantologia, nella chirurgia ricostruttiva, nell’industria, nell’economia e in molti altri campi applicativi. Questo è vero, ma è altrettanto vero, purtroppo, che molti li usano per scopi che molto spesso non hanno niente a che fare con l’aspetto umanitario, ma con il suo contrario; consideriamo per esempio i sistemi cosiddetti intelligenti che vengono utilizzati negli armamenti che rappresentano dei business industriali enormi per chi li produce (gli Stati più industrializzati del mondo, che sanno bene che cosa voglia dire “attribuzione di funzione”, spendono più di duemila miliardi di dollari all’anno solo per le spese militari). Per capire quanto siano grandi questi investimenti, pensiamo un attimo al debito pubblico italiano accumulatosi in questi ultimi decenni, che ammonta a circa tremila miliardi di euro.
Ma torniamo all’attribuzione di funzione degli oggetti. Si è sempre creduto, secondo la teoria evoluzionistica darwiniana, che i rettili dovrebbero essere meno intelligenti degli uccelli e gli uccelli meno dei mammiferi e i mammiferi meno degli uomini, anche se l’uomo, in realtà, è un mammifero. In sostanza negli animali, dal meno evoluto al più evoluto, l’attribuzione di funzione degli oggetti dovrebbe essere cognitivamente sempre più sofisticata, da quella più semplice a quella più complessa.
Ma è proprio così? Secondo alcune evidenze sembrerebbe proprio di no. Infatti alcuni corvi sono capaci di costruire dei bastoncelli ricavandoli da dei piccoli ramoscelli che sfoltiscono dalle foglie con uno scopo, cioè quello di catturare delle larve nascoste tra le cortecce degli alberi e che non possono raggiungere con il becco. Ora però il punto è quello di stabilire se lo fanno intenzionalmente o meno perché, come sappiamo, l’intenzionalità è uno stato della coscienza. Allora la domanda non è da poco perché se fosse così, cioè se lo facessero intenzionalmente, bisognerebbe attribuire loro uno stato di coscienza. Certo, si tratterebbe di una coscienza meno complessa di quella umana, ma pur sempre di una coscienza. Lo stesso discorso potrebbe valere, per esempio, per i capodogli che sono dei mammiferi. Questi animali utilizzano i loro vocalizzi non solo per comunicare tra loro, ma anche per identificarsi l’uno con l’altro, anche se qui il problema per gli scienziati è molto difficile in quanto bisognerebbe valutare attentamente quanto nella loro comunicazione ci sia un contenuto sintattico e quanto semantico come nell’uomo nella cui comunicazione linguistica ci sono entrambi i contenuti. In sostanza si tratta di stabilire quanto le comunicazioni tra i capodogli siano da trattare come atti linguistici veri e propri oppure no. Come sappiamo dalla filosofia del linguaggio, l’atto linguistico va al di là del suo semplice contenuto proposizionale (anche un calcolatore può pronunciare e leggere delle proposizioni in tutte le lingue del mondo). Quando gli uomini comunicano tra loro è necessario distinguere bene ciò che fanno nel dire qualcosa (atto illocutorio), ovvero se descrivono semplicemente una situazione, se domandano qualcosa a qualcuno, se comandano e impongono di fare qualcosa a qualcun altro,da ciò che fanno con il dire qualcosa (atto perlocutorio), per esempio se desiderano persuadere, intimorire oppure consolare qualcuno.
Siamo certi che gli animali pensano e riflettono sulle cose, hanno persino delle speranze e delle aspettative, anche se non bisogna mai confondere tra loro i fenomeni di cui stiamo parlando. Per intenderci, sappiamo che alcuni calcolatori riescono a tradurre i versi di richiamo che si odono durante il corteggiamento di alcuni animali, per esempio proprio quelli dei capodogli che abbiamo appena menzionato, oltre a quelli di diverse specie di scimmie e di alcune specie di uccelli (si chiamano apprendimenti informatici). Le stesse tecniche sono state applicate per leggere le espressioni facciali dei cani mentre comunicano tra di loro o con gli esseri umani. Di tutto questo non ci dobbiamo meravigliare. In sostanza, quando interpreteremo bene e nella sua complessità che cosa ci voglia comunicare un cane con i suoi gesti, guaiti e comportamenti vari, capiremo meglio le sue vere intenzioni.
Tutti questi stati coscienti restano comunque qualitativamente individuali, soggettivi, come si dice, ontologicamente in prima persona, sia che appartengano a un essere umano o a un cane o a un altro animale. Questo è il punto. È qui che anche il più complesso strumento tecnologico, il computer più grande del mondo, non potrà mai arrivare a interpretare nella qualità le loro intenzionalità (quelle dell’uomo e quelle degli animali) e il valore cognitivo di attribuzione delle funzioni che essi danno agli oggetti che costruiscono con le loro mani o che trovano nell’ambiente. Il computer lo potrà fare solo in parte.
È difficile simulare nella sua interezza l’attività di un materiale biologico, quindi naturale, che si evolve nel tempo, cioè il cervello dell’uomo e anche quello dell’animale, dei quali tra l’altro sappiamo ancora molto poco. Ciò che comunque è certo è che l’intelligenza artificiale probabilmente non potrà mai raggiungere i loro livelli di complessità. Come ha scritto giustamente il filosofo americano John Searle: “la complessità che si manifesta nella nostra razionalità pratica, impedisce qualsiasi ipotesi di riduzione dell’intelligenza umana a dei modelli computazionali del nostro cervello” (io aggiungerei anche di quello di molti animali, scimmie in particolare).