Mettere sul mercato il 30% della conservazione degli oceani?
Nel 2022 i governi di 196 Paesi del mondo hanno trovato un accordo: il nostro pianeta sta affrontando una serie di crisi ambientali che mettono a rischio biodiversità e risorse ecosistemiche che permettono la sopravvivenza dell’umanità e ha bisogno di essere maggiormente protetto dalle attività antropiche umane. La risposta è stata l’adozione del piano 30X30 del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (GBF) adottato dalla 15esima conferenza delle parti della Convention on biological diversity (CBD) e che prevede di proteggere il 30% del pianeta – a terra e a mare - entro il 2030, ma sebbene il GBF richieda ai Paesi di impegnarsi a raggiungere questi obiettivi di tutela della biodiversità, non delinea quali aree dovrebbero essere protette, come farlo in modo inclusivo o come finanziarlo.
Inoltre, anche se la conservazione della natura piace molto alla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, i governi spesso la attuano solo sulla carta perché non trovano le risorse sufficienti per attuarla sul serio e questo porta governi come quelli italiani a firmare ogni accordo globale ed europeo sulla difesa della biodiversità ma poi a non rispettare gli impegni presi. Il no italiano alla Nature Restauration Law dell’Unione europea rappresenta un’ulteriore esempio di sottovalutazione politica e culturale del governo di destra per la tutela e il ripristino dell’ambiente.
Lo studio “A market for 30x30 in the ocean - Marine protections could benefit from trade in obligations”, pubblicato su Science da Juan Carlos Villasenor-Derbez, Christopher Costello e Andrew Plantinga dell’università della California Santa Barbara (UCSB), propone un approccio basato sul mercato per raggiungere gli obiettivi oceanici del 30x30. I tre ricercatori hanno testato se un sistema che consentisse ai Paesi di scambiare crediti di conservazione potesse ridurre i costi, incentivando le nazioni a raggiungere effettivamente i propri obiettivi e dicono che «Consentire il commercio volontario ha sempre ridotto i costi di conservazione, a volte di oltre il 90%».
Villaseñor-Derbez ricorda che «Questo progetto è iniziato poco più di quattro anni fa. A quel tempo, i Paesi non riuscivano a raggiungere il parametro di protezione del 10% mentre elaboravano piani per una protezione del 30%. Sembrava che la maggior parte delle nazioni fossero sinceramente impegnate nella conservazione marina, ma che i costi della conservazione impedissero ad alcuni di impegnarsi in essa. Allo stesso tempo, molte ricerche avevano già dimostrato che se si riuscissero a convincere le nazioni a cooperare riguardo alla conservazione, si potrebbero ridurre sostanzialmente i costi della conservazione».
Gli autori del nuovo studio si sono resi conto che il mondo aveva bisogno di un’istituzione, una politica o un quadro in grado di supportare tutto questo.
Il costo della protezione dei km2 di oceano non è l’unico aspetto che varia da luogo a luogo. I benefici ecologici della conservazione cambiano anche in base alla posizione e alla UCBS evidenzaiano che «Il raggiungimento del 30x30 nell’oceano richiederà alle nazioni costiere di considerare i potenziali compromessi associati a queste protezioni. Poiché la pesca di alto valore può coincidere con importanti ecosistemi marini – come le barriere coralline, le praterie di alghe e le foreste di fanerogame – soddisfare l’obbligo potrebbe comportare un costo elevato per alcune nazioni ma non per altre».
Villasenor-Derbez è convinto che «Senza una soluzione politica innovativa, il costo della conservazione per molte nazioni potrebbe bloccare i progressi verso il 30x30».
Ma secondo i tre ricercatori dell’UCBS, «Questa variabilità significa che il commercio potrebbe incentivare ulteriori guadagni. Invece di investire in aree con alti costi di conservazione o bassi benefici, le nazioni potrebbero scambiare i propri dazi per raddoppiare gli investimenti nelle regioni in cui la protezione produce rendimenti più elevati».
Gli economisti e gli scienziati ambientali dell'Environmental Markets Lab (emLab) dell'USB si sono chiesti se un conservation credit system potrebbe aiutare a raggiungere gli obiettivi 30x30 per l'oceano e hanno ideato un sistema in base al quale i Paesi possono scambiare i loro obblighi di conservazione con altre nazioni attraverso una politica di “transferable conservation market” costruita attorno a principi ecologici.
Costello, professore illustre e direttore dell'emLab, spiega a sua volta che «Come i mandati esistenti, questo approccio richiede che ogni Paese protegga una certa frazione (diciamo il 30%) del suo habitat marino. Ma a differenza di altri approcci, noi consentiamo che tali obblighi siano scambiati tra Paesi, all’interno di rigorosi vincoli ecologici». Così facendo, i Paesi con costi di conservazione più elevati pagano altri Paesi per aumentare i loro sforzi di conservazione. Lo studio stima il potenziale risparmio sui costi globali in presenza di vari vincoli commerciali.
Costello fa l’esempio della ricca Norvegia, che ha una pesca di grande valore: «Potrebbe pagare Palau, un Paese che ha già investito in modo significativo nella conservazione delle coste, per conservare ulteriori aree per conto della Norvegia. Questo consente alla Norvegia di adempiere ai propri obblighi di conservazione in un’altra parte del mondo».
Costello, Villaseñor-Derbez e Plantinga, hanno sviluppato un modello per stimare i potenziali costi e benefici che potrebbero essere ottenuti attraverso un mercato della conservazione marina come questo. Hanno messo insieme i dati della distribuzione di 23.699 specie marine con quelli sulle entrate della pesca per costruire curve di offerta di conservazione per le nazioni costiere del mondo. Poi, hanno definito le “bolle commerciali” sulla base di fattori biologici e geografici e spiegano ancora: «Un Paese potrebbe scambiare crediti per la conservazione solo con altre nazioni all’interno di queste bolle predefinite al fine di garantire che la conservazione fosse equamente distribuita tra i diversi habitat marini della Terra».
Per determinare i potenziali costi, gli autori dello studio hanno esaminato 5 politiche di bolla che consentono ai diversi Paesi di commerciare all’interno degli emisferi, dei regni biogeografici, delle province, delle ecoregioni o a livello globale e ne è venuto fuori che. indipendentemente da come hanno modificato questa impostazione, «Un mercato per la conservazione marina ha sempre ridotto i costi della conservazione. Il risparmio stimato dal modello potrebbe variare dal 37,4% fino al 98% nell’ambito dell’obiettivo 30x30».
Secondo Villaseñor-Derbez, questo risultato «Ha semplicemente evidenziato quanto sia inefficiente richiedere obblighi di conservazione uniformi a ciascuna nazione. Dopo tutto, i confini nazionali non si sovrappongono o non si allineano realmente con i modelli di distribuzione della biodiversità marina».
E lo studio risponde anche a un’altra obiezione che sorge spontanea: così non si rischia di trascurare habitat a rischio molto importanti – come il Mediterraneo – per finanziare la tutela di altri? All’UCSB fanno notare che «I risparmi sono stati maggiori in un mercato globale, dove ogni nazione può trarre vantaggio dal commercio. Ma un mercato globale potrebbe inavvertitamente concentrare gli sforzi di conservazione solo su un singolo tipo di habitat, trascurandone altri. Questo è esattamente il motivo per cui il team ha introdotto il vincolo della bolla commerciale.
Villaseñor-Derbez aggiunge: «Quando alle nazioni che affrontano costi elevati viene consentito di commerciare, possono chiedersi “devo salvaguardare le mie acque a un costo così elevato, o posso trovare qualcuno nella mia bolla che abbia un habitat altrettanto buono del mio ma a un prezzo inferiore?. Lo stesso varrebbe per una nazione venditrice. Potrebbero decidere se conservare più del necessario a seconda del prezzo di scambio».
Naturalmente, un Paese potrebbe sempre agire da solo, adempiendo ai propri obblighi di conservazione (e solo ai propri) interamente all’interno del proprio territorio. Ed proprio quello che prevedono attualmente l’iniziativa 30x30 e le normative europee. Ma l’analisi realizzata dal nuovo studio prevede che «Pochissimi paesi lo faranno. La maggior parte ritiene molto più economico acquistare o vendere obblighi di conservazione».
Gli autori dello studio sono consapevoli che il rischio di essere tacciati di colonialismo conservazionista è fortissimo. Se venisse istituito un sistema di mercato per proteggere il mare, cosa impedirebbe alle nazioni ricche di “pagare” semplicemente i loro obblighi di conservazione e di scaricarli sulle nazioni più povere?. Costello, Villaseñor-Derbez e Plantinga ribattono che è il mercato stesso ad offrire una soluzione.
Platinga sottolinea, a capo del Productive Landscapes Group di emLab, conclude: «Tutti questi scambi sono puramente volontari. La nazione venditrice (il Paese povero in questo esempio) si impegna nel commercio solo se lo trova vantaggioso».
In un mondo ideale del capitalismo idealizzato forse sì, ma proprio le esperienze precedenti. gli abusi e le truffe lungo altre iniziative volontarie simili riguardanti foreste e clima, la scarsa – a volte pessima- governance delle aree marine protette da parte di Paesi poveri che non hanno semplicemente le risorse umane per sorvegliarle e per applicare leggi, regole e vincoli, il fatto che spesso i Paesi poveri siano debitori di quelli ricchi che gli proporranno lo scambio tutela del mare – soldi, fanno temere che il sentore di colonialismo ambientale che emana dalla proposta Market 30X30 sia qualcosa di molto concreto e di già annusato.