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Intervista a Fausto Ferruzza, presidente Legambiente Toscana e delegato al Paesaggio del Cigno verde nazionale

Altro che rinnovabili contro paesaggio, per diffondere gli impianti serve più partecipazione. Anche economica, a partire dagli Enti locali

La Regione Toscana, come le altre, ha quattro mesi per individuare le Aree idonee: per il fotovoltaico al 2030 basta lo 0,5% della superficie agricola
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Intervista

Una settimana fa l’assessora all’Ambiente della Regione Toscana, Monia Monni, ha aperto il confronto con le associazioni ambientaliste e i comitati attivi sul territorio sull’individuazione delle Aree Idonee alle rinnovabili, cui ha partecipato anche Legambiente. Com’è andato l’incontro?

«A nostro avviso molto bene. L’intento è condivisibile: mettere tutti intorno a un tavolo e sfidare anche i più scettici a dare un contributo proattivo. Abbiamo due mesi per costruire e portare una bozza di legge regionale in Giunta e, poi, altri due per veder approvato l’atto in Consiglio. Avere tempi così contingentati, paradossalmente, ci potrebbe aiutare a concentrare l’attenzione sui nodi (veri) ancora da sciogliere».

Nei giorni scorsi sulla Toscana è piovuta in 12 ore più acqua di quella attesa in media nell’intero mese di settembre. Si tratta dell’ennesimo evento meteo estremo: in un contesto simile ci sono ancora delle ragioni per vedere nelle rinnovabili un nemico del paesaggio, anziché un argine alla crisi climatica?

«No, non ce ne sono. Se mai ce ne fossero state. Nel mio intervento, in apertura, ho rimarcato ancora una volta i dati, per la verità sconvolgenti, di Copernicus. Per tredici mesi consecutivi si è stracciato ogni record assoluto precedente sulla temperatura media della crosta terrestre. Un’enorme riserva di calore, carica di energia, pronta a “esplodere” con le prime perturbazioni. La comunità scientifica ci dice che stiamo già attraversando “terre ignote”, ed è quindi difficilmente prevedibile immaginare cosa potrà accadere se non iniziamo seriamente a mitigare il rischio climatico. Da subito».

Eppure sui territori si levano le proteste di categorie e comitati contro l’installazione di nuovi impianti. Crede che rappresentino la sensibilità della maggioranza, o siano piuttosto una rumorosa minoranza?

«Per quanto quelle posizioni siano lontane dai miei convincimenti, credo sia profondamente irriguardoso tacciare qualcuno di essere minoranza. La democrazia rappresentativa ha le sue regole e finché non ci si conta nell’urna, dovremmo tutti astenerci dall’assumere posture autoreferenziali. Dal punto di vista antropologico, m’interessa piuttosto sottolineare la straordinaria sottovalutazione in cui s’incorre, a mio avviso, quando si apre un documento di posizionamento con la frase apologo “noi non siamo pregiudizialmente contrari alle fonti rinnovabili, anzi, ma …” – Ecco, con l’uso di questa congiunzione avversativa si apre spesso un mondo frastagliato e irriducibile, costellato di dinieghi ed eccezioni, che sinceramente consegnerei alle analisi dei sociologi del territorio».

Già oggi le fonti rinnovabili sono le più efficienti per decarbonizzare (secondo l’IPCC) e pure le più economiche (evidenzia la IEA). Significa che chi vuole lottare contro la crisi climatica e per la sicurezza energetica deve permetterne l’installazione? E l’istanza partecipativa come si concilia con questa urgenza?

«L’uso di quel verbo servile, nonostante tutto, non mi piace. Lo so che sembra contraddittorio evocare contemporaneamente la necessità di accelerare l’attuazione della transizione energetica sui territori e il bisogno di partecipazione delle comunità. A uno sguardo superficiale, potrebbero persino sembrare istanze dicotomiche ma, a ben vedere, non abbiamo altra scelta che perseguire tenacemente una sintesi alta, compiuta, tra esse. Perché - da sola - quella sintesi è capace d’illuminare di senso tutto l’impegno che stiamo profondendo come generazione per veder realizzato il sogno (che fu di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi) degli Stati Uniti d’Europa. Ecco, entro questo scenario politico, che necessariamente si aggancia alla dimensione continentale, non possiamo permetterci opacità, non possiamo permetterci esclusioni, non possiamo permetterci, tanto meno, atteggiamenti elitari. Non adesso. Non “nella” transizione che stiamo faticosamente cercando di mettere in opera. Se abbiamo compreso fino in fondo la lezione di Alex Langer sulla desiderabilità come unico orizzonte possibile per realizzare la conversione ecologica della nostra società e della nostra economia, non possiamo davvero permetterci il lusso di lasciare indietro qualcuno. Dobbiamo convincere le persone, non obbligarle».

A livello nazionale la confindustriale Elettricità futura stima la necessità di installare dagli 84 ai 140 GW di impianti rinnovabili al 2030, utilizzando (non consumando) lo 0,5-1% dei terreni agricoli. Qual è il target di riferimento in Toscana?

«Quando si accenna al problema dell’utilizzo di suolo agricolo, si parla della tecnologia fotovoltaica. E, soprattutto, per quanto ci riguarda, di quella agrivoltaica. Il decreto aree idonee del Governo, nonostante le sue afasie e le sue timidezze, da questo punto di vista, parla chiaro. La Toscana, al 2030, dovrà coprire dallo 0,39% allo 0,54% della sua Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Con una media ponderata quindi dello 0,46%. Al 2050 questa percentuale, a giudicare dagli ambiziosi obiettivi che anche l’ultimo G7 si è dato, dovrà necessariamente triplicare. Quindi, mal che vada, nello scenario di lungo periodo vedremo utilizzato max l’1,3% del territorio rurale della nostra regione. IRPET però ci descrive un altro come problema macro per la nostra agricoltura, ossia quello dell’abbandono. Stiamo parlando di percentuali a dir poco spaventose. Sia in termini di imprese agricole (-28%) che di SAU (-15%), nell’arco del solo decennio 2010/2020. La chiosa che mi verrebbe da fare di fronte alla crudezza di questi dati, è che molti commentatori toscani – in questa fase così turbolenta della storia della nostra Repubblica – si stiano colpevolmente concentrando più sul dito che sulla luna».

Terna indica ad oggi richieste di connessione per impianti rinnovabili da 341 GW in Italia, di cui 7,6 GW solo in Toscana. Come scremare e rendere prioritari i progetti qualitativamente migliori?

«Quando non si governa, il mercato copre quegli spazi lasciati impresenziati dalla politica. Dalla buona politica. A mio avviso, le tre articolazioni fondamentali della Repubblica (Stato, Regioni, Comuni) dovrebbero invece recuperare il tempo perduto, cooperando alla stesura e al disegno di aree idonee plausibili e sufficientemente condivise in ogni angolo del Paese. Da questo punto di vista, al MASE non si dovrebbero più affastellare centinaia di progetti di dubbia consistenza che hanno solo l’intento dichiarato e semplice di arrivare prima degli altri, ma ci si dovrebbe concentrare unicamente sulla valutazione della loro qualità. Ripeterò fino alla nausea la sequenza che ci aspettiamo. Pianificazione rigorosa, programmazione coerente, progettazione di altissima qualità».

Come confermano da ultimo il report Draghi sulla competitività, e prima ancora Arera, i benefici in bolletta dalle rinnovabili ancora non si sentono a causa di un meccanismo di formazione dei prezzi ancorato al gas fossile. Come superare questo vulnus per rendere più attraente per i cittadini la presenza dei grandi impianti sui propri territori?

«Innanzitutto, favorendo con ogni mezzo la compartecipazione azionaria degli enti locali e, in parallelo, facendo prendere confidenza ai cittadini con strumenti nuovi e promettenti, come le Comunità Energetiche e l’Autoconsumo Collettivo. Vedo uno scenario, cioè, in cui i grandi impianti siano realmente partecipati dalle istituzioni locali e quelli più piccoli promossi e veicolati da una grande spinta popolare. È un sogno che necessariamente dobbiamo realizzare assieme. Perché, come c’insegna sempre l’ottimo Erri De Luca: l’utopia non è il traguardo ma il nostro punto di partenza … ».

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.