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Microplastiche nei contenitori alimentari riscaldati al microonde

Studio delle università di Milano e Milano-Bicocca ed Eos possono disperdersi nell’ambiente quando non utilizzati secondo le indicazioni
 |  Inquinamenti e disinquinamenti

Secondo lo studio “Evidence of Sub-Micrometric Plastic Release When Heating Food Containers Based on Light Scattering Measurements”, pubblicato su Particles and Particle Systems Characterization.da Marco Pallavera e Tiziano Sanvito (Eis), Llorenç Cremonesie Claudio Artoni (università Milano-Bicocca), Andrea Falqui e Marco Potenza (università Statale di Milano), «Portarsi in ufficio il pranzo nella cosiddetta “schiscetta” e scaldarlo al microonde in maniera non appropriata può contribuire al rilascio di microplastiche nell’ambiente».
La ricerca si è svolta all’EOS, un’azienda che sviluppa la tecnologia Single Particle Extinction and Scattering (SPES).per la caratterizzazione ottica di polveri ideata nei laboratori di fisica dell’università Statale di Milano.
L’idea di verificare se i contenitori alimentari in plastica scaldati al microonde rilasciassero micro e nanoplastiche è partita da EOS, dopo che “SPES” aveva evidenziato la formazione sistematica di nano e micro-sfere di plastica durante il riscaldamento di acqua pura, un esperimento controllato per a simulare quanto avviene durante il riscaldamento del cibo.
Pallavera, direttore ricerca e sviluppo della EOS e ideatore del protocollo di misura utilizzato nello studio, sottolinea che «“SPES” è un metodo innovativo che permette di classificare nano e micro particelle in maniera molto precisa e completa», Sanvito che amministra l’azienda fin dalla sua fondazione nel 2014, aggiunge: «Lo studio, iniziato quasi per curiosità, ha subito mostrato l’adeguatezza del nostro metodo a costruire un protocollo solido e affidabile per il problema in studio».
Potenza, docente di ottica del Dipartimento di fisica dell’università Statale di Milano, inventore della tecnica utilizzata nello studio e commercializzata da EOS e responsabile del Laboratorio di strumentazione ottica e direttore del Centro Interdipartimentale Materiali e Interfacce Nanostrutturati (CIMAINA), sottolinea che «I dati presi da EOS hanno mostrato subito una forte solidità, fondamentale per approcciare un problema delicato come questo».
Dopo molti controlli incrociati sulle procedure sperimentali, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che, «Riscaldando acqua pura nei contenitori alimentari si liberano nano e microsfere composte del materiale di cui è costituito il contenitore stesso: il polipropilene, un materiale biocompatibile che ha la caratteristica di fondere tra i 90 e i 110 gradi. Portando l’acqua a ebollizione, quindi, una piccola parte di polipropilene si fonde per poi solidificare nuovamente in acqua. Lo stesso processo, d’altra parte, che si utilizza per produrre industrialmente nanosfere di materiali polimerici, utilizzate in molti settori industriali dalla cosmetica allo sviluppo di materiali innovativi».
I risultati sono stati analizzati e studiati in dettaglio anche da Cremonesi e Artoni del laboratorio EuroCold, del Dipartimento di scienze dell’ambiente e della Terra dell’università Milano-Bicocca e corredati di immagini al microscopio elettronico prese da Falqui, docente del Dipartimento di fisica dell’università Statale di Milano.
Sanvito aggiunge: «E’ interessante notare che diversi produttori specificano di non portare i contenitori oltre i 90° C, oppure di non riscaldarli per troppo tempo nel microonde, oppure ancora di non usare l’apparecchio alla massima potenza. Quindi, seguendo queste indicazioni, l’effetto non si verifica. Viceversa, le nano e micro-particelle prodotte andranno a contribuire alla dispersione di plastica in ambiente che caratterizza il mondo moderno».

Redazione Greenreport

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