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Meno export ma pochi impianti di prossimità: la filiera dei rifiuti tessili urbani a rischio stop

«In assenza di impianti per il riciclo o per la trasformazione energetica di queste frazioni l’equilibrio salta e la raccolta rischia di fermarsi»
 |  Green economy

A poco più di due anni dall’introduzione dell’obbligo di raccolta differenziata per i rifiuti tessili urbani – e senza ancora un sistema di responsabilità estesa dei produttori (Epr) a sostenere economicamente la filiera –, questa fetta di economia circolare rischia già di fermarsi.

L’allarme è stato lanciato nel corso del Green med expo & symposium di Napoli da Unirau (l’associazione delle aziende e delle cooperative che svolgono le attività di raccolta, selezione e valorizzazione della frazione tessile dei rifiuti urbani) e Ariu (Associazione recuperatori indumenti usati), con la richiesta di incontro urgente con la direzione Economia circolare del Mase per illustrare la preoccupante situazione.

Per capirla, occorre prima fare un passo indietro per osservare l’attuale dinamica della filiera. In pratica i Comuni affidano tramite gara la raccolta dei rifiuti tessili urbani a cooperative e soggetti dell’economia sociale, che posizionano i cassonetti e svolgono il servizio a loro spese, venendo remunerati con la proprietà dei rifiuti raccolti e spesso pagando anche una royalty al Comune stesso.

I raccoglitori si finanziano quindi vendendo i rifiuti alle aziende della selezione che (dopo le procedure necessarie a far cessare la qualifica di rifiuto) a loro volta ottengono i loro ricavi dalla vendita in Italia ed all’estero dei prodotti di “second hand” nei vari livelli qualitativi, e dalla trasformazione di quanto non riusabile a lavorazioni di “downcycling” quali imbottiture, pezzame industriale, materiali fonoassorbenti.

Questo delicato equilibrio rischia a breve di rompersi per due cause concomitanti. La prima è determinata dalle crisi economiche causate dalle guerre che funestano mercati che da decenni acquistano abbigliamento usato come l’Ucraina e l’Est in generale, il Nord Africa, il Libano e l’Africa sub Sahariana.

La seconda è il crescente freno imposto dalle norme europee nell’esportazione di rifiuti e di prodotti usati di fascia bassa – del resto la Commissione stima che la percentuale di export illegale di tutti i rifiuti oscilli tra il 15% e il 30%, per un giro d’affari illecito da circa 9,5 miliardi di euro annui –, che nel comparto tessile stanno crescendo sempre più a causa del dilagante fast fashion.

Che fare? Rivolgendosi meno all’estero, va da sé che è necessario incrementare la disponibilità d’impianti di gestione su suolo nazionale.

«Se il legislatore europeo – argomentano Unirau e Ariu – decide di bloccare le esportazioni della frazione riusabile meno qualitativa verso mercati nei quali andrebbe comunque in competizione con fast fashion scadente, in assenza di impianti per il riciclo o per la trasformazione energetica di queste frazioni l’equilibrio salta e la raccolta rischia di fermarsi».

Redazione Greenreport

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