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Il 4-9% degli indumenti commercializzati in Europa viene distrutto senza essere mai usato

In Ue il 78% dei rifiuti tessili va a recupero energetico o in discarica, in Italia l’81%

Lanz (Ispra): «In Italia la raccolta differenziata dei rifiuti tessili è intorno al 19%, un valore leggermente inferiore alla media Ue del 22%»
 |  Green economy

Dal primo gennaio è entrato in vigore in tutta l’Ue l’obbligo della raccolta differenziata dei rifiuti tessili – l’Italia è stata antesignana, dato che qui esiste dal 2022 – ma la filiera è ancora molto lontana dal potersi dire circolare, come emerso dall’intervento in commissione Ambiente alla Camera di Massimiliano Lanz, direttore del Centro nazionale rifiuti e economia circolare dell’Ispra.

«In Italia la raccolta differenziata dei rifiuti tessili è intorno al 19%, un valore leggermente inferiore alla media Ue del 22%», spiega Lanz. Soprattutto, come sintetizzano dal Circular economy network della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, il 78% dei rifiuti tessili prodotti in Europa finisce incenerito o in discarica – percentuale che in Italia sale all’81%. In altre parole, nel 2023 sono solo 172mila le tonnellate di rifiuti tessili raccolte in modo differenziato in Italia, il 7,1% in più rispetto al 2022, ma ancora una minima frazione delle 900mila ton di rifiuti tessili urbani generati ogni anno.

«La produzione cresce più lentamente ma non c’è una vera prevenzione», osserva nel merito Lanz, perché contraria in principio al fenomeno della fast fashion: basti ricordare lo studio dell’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) stima che tra il 4 e il 9% degli indumenti commercializzati in Europa venga distrutto senza essere mai utilizzato. Si parla di 264-594 mila tonnellate tra abiti, accessori e scarpe invenduti o restituiti che finiscono in discarica.

Che fare? Nella revisione della Direttiva quadro sui rifiuti, la Commissione europea ha inserito l’obbligo di predisporre un sistema di responsabilità estesa del produttore per i rifiuti tessili in tutti gli Stati membri. Al momento, l’iter di approvazione è arrivato alla fase del trilogo, ovvero la negoziazione tra Parlamento, Consiglio e Commissione, e non è chiaro quando tale obbligo dovrebbe scattare.

L’Italia ancora una volta si sta portando avanti – in queste settimane è in fase di consultazione una bozza di decreto che recepisce la direttiva sull’Epr (responsabilità estesa del produttore) del settore tessile –, ma anche qui non mancano le criticità, come evidenziato sulle nostre colonne dall’esperto Alessio Ciacci.

Una prima bozza su cui sono state ascoltati in sede ministeriale i principali attori del sistema, quali l’Anci, Utilitalia, Assoambiente, Erion ed altri consorzi costituiti dai produttori in questi anni, è ricca di grandi obiettivi e di un positivo Centro nazionale di coordinamento, ma non si definiscono pilastri che sarebbero fondamentali per disegnare un futuro del settore.

In primis il tema della privativa, senza la quale i rifiuti raccolti non sarebbero di proprietà pubblica, come gli altri, ma di chi li intercetta. E questo rischia di creare disparità sia di qualità tra i materiali tessili raccolti (con il rischio che quelli di migliore qualità siano intercettati nei negozi a vantaggio dei soli produttori, e quelli di scarsa qualità a carico della collettività tramite i gestori dei servizi di igiene urbana) sia geografiche tra città e zone rurali del paese.

Inoltre, viene demandata ai consorzi la politica del contributo sull’immesso sul mercato, quando sarebbe invece necessario, vista l’enorme impatto del settore, una chiara e coraggiosa diversificazione tra contributi economici ambientali per capi di abbigliamento in monomateriale (dunque di più facile riciclo) e altri con materiali misti e sintetici.

Redazione Greenreport

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