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La finanza verde continuerà a crescere, nonostante Trump. Soprattutto in Europa
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Si parla sempre più spesso di finanza verde, non di rado a sproposito. Soprattutto dopo l’insediamento di Donald Trump come 47esimo presidente Usa, che ha innescato il ritiro delle sei più grandi banche statunitensi dalla Net-zero banking alliance – è il gruppo dei maggiori istituti di credito al mondo impegnati negli obiettivi Onu sul clima –, cui si è subito aggiunta la volontà di BlackRock (ovvero il più grande gestore patrimoniale al mondo, con un portafoglio da oltre 11mila miliardi di dollari) di abbandonare l’analoga Net zero asset managers. Che sta succedendo? L’abbiamo chiesto all’economista Franco Becchis, esperto di finanza e già direttore scientifico della Fondazione per l’ambiente e della Turin school of regulation.
Intervista
Professore, iniziamo col delineare il perimetro del dibattito: cosa s’intende per green bond, con Fondi d’investimento verdi e col resto dell’abbecedario per una finanza orientata al rispetto dei criteri Esg?
«I principali strumenti finanziari verdi si dividono essenzialmente in tre famiglie. La prima sono i green bond, cioè obbligazioni, strumenti di debito emessi da istituzioni o aziende che canalizzano capitali verso progetti sostenibili. La seconda sono i fondi green, ovvero pool: – una sorta di piscine finanziarie che vengono riempite con apporti da privati, fondi pensione, assicurazioni, etc – gestite da manager che possono investire anche direttamente in progetti ambientali, facendo dunque parte di quella shadow banking (finanza ombra) che non emerge nelle statistiche. La terza famiglia è quella degli swap, che vengono molto usati nei Paesi in via di sviluppo che hanno debiti esteri, gestiti in genere da organizzazioni internazionali come la Banca mondiale: in questi casi una parte del debito estero del paese viene scambiata (swap) con investimenti ambientali all’interno del Paese stesso. Questi sono i tre strumenti principali, a cui dobbiamo aggiungere gli etf (exchange traded funds) con focus ambientale, che permettono di raccogliere risorse anche dai piccoli risparmiatori risorse e canalizzarle verso progetti ambientali. Gli etf infatti hanno in genere una forte liquidità, una caratteristica indispensabile perché siano attraenti per il risparmio retail. Ma il problema che sta a monte è definire cosa vuol dire davvero finanza verde».
In che senso?
«In un mondo perfetto la finanza verde canalizza risorse verso progetti che fanno bene all’ambiente, ma per decidere quali progetti sono sostenibili serve una tassonomia e dunque una serie di criteri condivisi per stabilire un ranking di sostenibilità: avendo una classifica del genere, nel mondo delle favole il consumatore e il risparmiatore saprebbe perfettamente cosa fare per acquistare prodotti verdi o investire in sostenibilità».
In pratica però non c’è unanimità su quali siano gli investimenti davvero verdi, come mostra il caso della tassonomia Ue e le relative critiche per l’inserimento nel paniere di energia nucleare e gas fossile.
«Assolutamente, si tratta di uno degli elementi di maggiore conflitto ideologico ma anche scientifico. Quindi uscendo dal mondo delle favole entriamo in quello dove gli obiettivi di sostenibilità non sono condivisi, e di conseguenza non lo è neanche la tassonomia: le scelte da compiere non sono univoche, ma soggette al dibattito».
Comunque la si voglia intendere, da anni la finanza verde presenta solide tendenze di crescita. Con l’arrivo di Trump pensa sia arrivata un’inversione di rotta?
«Sicuramente la narrativa politica è cambiata, molto più negli Usa che non in Ue, e come spiega il premio Nobel per l’economia Robert Shiller la narrativa è tutto. Questo può dunque influenzare l’evoluzione di quello che definiamo finanza verde, se non altro per l’atteggiamento secondo me servile di colossi come BlackRock che appena due anni fa diceva – tramite Larry Fink, il presidente e ad di quella che è la più grande società d’investimenti al mondo – di portare avanti investimenti Esg (ovvero tenendo conto dei fattori di sostenibilità sotto i profili Environmental, Social, Governance, ndr) per fare l’interesse dei clienti. Possibile che con l’arrivo di Trump sia improvvisamente cambiata la struttura di preferenze dei clienti BlackRock? Mi sembra strano. Eppure, l’atteggiamento di soggetti come BlackRock, che da sola gestisce asset per 11 trilioni di dollari, è in grado di muovere i mercati. Fa leva su questo il pronunciamento di alcuni giudici Usa che hanno definito illegale l'investimento con obiettivi ambientali perché contraddirebbe il principio del massimo rendimento che guida il rapporto fra gestori di asset e investitori. I giudici hanno anche sostenuto che i gestori non hanno rispettato le regole del proxy voting (votare a nome degli investitori nelle assemblee delle imprese e dei fondi in cui loro risparmi vengono collocati).
Ciò premesso, la finanza verde ha riscosso una rapida crescita negli ultimi anni, e dopo le esplosioni di crescita i mercati finanziari hanno in genere un rallentamento verso la stabilità. Non mi stupisce dunque che nel 2025 possa esserci un rallentamento nelle emissioni di bond e fondi verdi, rallentamento che a mio avviso è comunque fisiologico e soprattutto statunitense, perché in Europa non mi sembra sia in arrivo una svolta di questo tipo».
Crede dunque che in Europa non ci saranno cambiamenti sensibili sulla crescita della finanza verde, mentre negli Usa possiamo aspettarci un’inversione di marcia? Dalla California al Texas, molti stati Usa sono ormai delle superpotenze per quanto riguarda ad esempio gli investimenti in fonti rinnovabili.
«Prevedere il futuro è un mestiere che non mi piace, ma anche negli Usa credo potrà esserci un rallentamento ma non un’inversione totale. Mi sembra impossibile che negli Stati uniti non rimanga nessuno a dire che la finanza verde può avere un senso, se non altro perché rappresenta una protezione dai rischi, un hedge come si dice in finanza, come è dimostrato dall'analisi condotta sul valore di mercato di molte aziende e spiegata sul Financial Times da John Authers. Inoltre, quando c'è un rallentamento nel mercato e una uscita da una classe di asset, ciò che resta dentro diventa più attraente: paradossalmente l'uscita di alcuni soggetti dal mondo Esg potrebbe rendere più conveniente l'Esg stesso».
Del resto il successo dimostrato negli ultimi anni dalla finanza verde non deriva, in buona parte, dal semplice motivo che è più redditizia nel medio e lungo termine, come confermato anche recentemente dal Sole 24 Ore?
«Su questo punto francamente c’è molta confusione. Se è vero com’è vero che i criteri Esg – e dunque la finanza verde – riducono i rischi di medio e lungo periodo per le imprese, perché le rendono più resilienti agli impatti negativi sotto il profilo ambientale e non solo, allora i rendimenti di questi investimenti non possono che essere inferiori a quelli medi di mercato. Si tratta di un concetto poco presente nel dibattito, ma è l’unica legge eternamente valida in finanza: a rischi minori corrispondono rendimenti finanziari minori (a meno di interventi di policy che diano un valore economico alle minori esternalità negative degli investimenti Esg, che da solo il mercato non sarebbe in grado di soppesare).
Per capirlo guardiamo all’indice CAPE elaborato da Shiller, che indica il rapporto tra prezzo e rendimenti aggiustato ciclicamente: ad esempio, se un titolo che ho acquistato a 100 euro mi rende 10 euro all’anno, ho un CAPE pari a 10; se acquisto a 100 e rende 5, il CAPE è 20.
Negli investimenti Esg il CAPE è molto superiore rispetto ai non Esg, un po’ come succede con le aziende particolarmente innovative come Uber o OpenAI, che mostrano CAPE elevatissimi. Perché allora le persone ci investono? Perché comprano un’azione a 100 euro scommettendo che in futuro varrà 400 euro, non per avere rendimenti da 5, 10 o 20 euro l’anno. In altre parole, gli investimenti Esg puntano alla crescita del valore di mercato più che al rendimento del titolo».
La stessa definizione di sostenibilità, del resto, richiama alla capacità di durare nel tempo. E al proposito, l’economista Sergio De Nardis sintetizza che il Green deal «è essenziale per la mitigazione climatica e funzionale al recupero di almeno parte del gap tecnologico accumulato» in Europa. Cosa ne pensa?
«Ovviamente, per un’impresa la diminuzione dei rischi che portano con sé gli investimenti sostenibili è un fattore molto positivo. Ed è evidente che shock di policy possono favorire la ricerca, possono stimolare tecnologie, la scoperta di nuovi materiali e processi da cui poi sgorgano altri benefici. Da questo punto di vista sono molto fiducioso. Tuttavia tornando ai rendimenti non bisogna farsi illusioni: fra le azioni che hanno reso di più nel XX secolo cu sono quelle delle imprese "cattive", alcol e tabacco. Il vizio e il piacere spesso sovrastano la virtù, anche in finanza».
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