L’Italia primeggia in Europa per riciclo rifiuti, ma dietro al record restano molte lacune
L’ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat) ha aggiornato i dati in merito al recupero e avvio a riciclo nel Vecchio continente, stilando una classifica dalla quale il nostro Paese emerge come il più virtuoso.
Nell’ultimo anno censito (2022) nell’Ue sono state trattate 1.992 milioni di tonnellate di rifiuti – tra urbani e speciali –, in crescita del 5% rispetto al 2004. In questo lasso di tempo la quota recuperata (considerando riciclo, termovalorizzazione, riempimenti nel settore bonifico o paesaggistico) è aumentato in modo assai più considerevole (+40,6%). Nel complesso, il 61,4% dei rifiuti dell'Ue viene oggi recuperato attraverso diversi canali: riciclo (40,8% del totale dei rifiuti trattati), riempimento (14,2%), recupero energetico (6,4%). Il restante 38,6% è stato smaltito in discarica (30,2%), incenerito senza recupero energetico (0,4%) o smaltito altrimenti (8,0%).
Si tratta di una performance che raggiunge però valori molto diversi tra i vari Paesi europei, con lo smaltimento che ancora domina le modalità di gestione rifiuti in Romania (93,8%), Bulgaria (93%) e Finlandia (81%), mentre la quota più alta di riciclo viene riconosciuta all’Italia (85,6%), seguita da Belgio e Slovacchia (entrambi al 68,3%).
Eppure anche in questo caso non è tutto oro quel che luccica, e per continuare a migliorare sulla strada dell’economia circolare occorre riconoscere che – al fianco di numerose, singole eccellenze gestionali sparpagliate lungo lo Stivale, soprattutto al centro nord – restano molte lacune cui far fronte.
Qualche esempio? All’Italia viene contestato il non aver raggiunto entro il 2020 l'obiettivo del 50% di preparazione al riuso e al riciclaggio dei rifiuti urbani (nel 2022 ancora fermo al 49,2%, mentre continua ad allargarsi la forbice tra raccolta differenziata e riciclo), tant’è che a luglio la Commissione Ue ha aperto una nuova procedura d’infrazione nei confronti del nostro Paese: l’ultimo rapporto Ispra pubblicato nel merito c’informa che in ampie aree del centro sud mancano impianti di gestione per i rifiuti urbani raccolti, in particolare per quanto riguarda l’organico (ma i sempre più numerosi progetti di biodigestione avviati rischiano adesso di portare addirittura a una sovraccapacità impiantistica su questo fronte, indice di scarsa programmazione mentre cala la qualità dell’organico raccolto) e per i rifiuti secchi non riciclabili meccanicamente, dove le uniche opzioni tecnologiche in campo spaziano dal riciclo chimico all’ossicombustione, fino ai termovalorizzatori sui quali però abbondano sindromi Nimby e Nimto.
È utile inoltre ricordare che i rifiuti speciali generati annualmente sono oltre il quintuplo degli urbani, e lungo la filiera di gestione la certezza dell’informazione resta un’utopia, tant’è che ancora oggi non sappiamo neanche – come denunciano da tempo Legambiente e gli imprenditori della filiera – qual è l’effettivo riciclo della maggiore frazione di rifiuti generata ogni anno, quelli da costruzione e demolizione. Nel mentre crescono i “rifiuti da rifiuti” e da depurazione, un segnale positivo in quanto significa che l’economia circolare avanza; ma anch’essa produce inevitabilmente scarti, come ogni processo industriale, e il relativo export è in crescita del 24% nell’ultimo anno – ancora una volta perché mancano impianti di gestione.
Infine, mentre cresce il consumo di risorse naturali, il tasso di utilizzo di materia proveniente dal riciclo (Cmu) nazionale misurato da Eurostat risulta in calo, con la peggiore performance dal 2016. In Italia, infatti, solo il 18,7% delle materie prime impiegate arriva da riciclo (si tratta comunque del 4° dato migliore in Ue). Certo, il Cmu è un indicatore problematico dato che vi pesa il valore dei combustibili fossili e biomassa usati e trasformati in emissioni e lo stock di materiale accumulato ogni anno in beni e manufatti di lunga durata; si stima dunque che, se anche l’Italia riciclasse tutti i suoi rifiuti, il tasso di circolarità così calcolato non potrebbe salire oltre il 20,5%.
Ancora una volta, servirebbe piuttosto domandarsi quanti dei materiali avviati a riciclo rientrino poi concretamente sul mercato come prodotti, e la necessità di un piano industriale (italiano ed europeo) che promuova l’impiego dei materiali riciclati, come proposto anche dalla Fead – la Federazione europea per la gestione dei rifiuti – resta indifferibile: ad oggi non solo manca una politica industriale in materia, ma anche gli incentivi per il riciclo stanno praticamente a zero.