Come risolvere i conflitti Nimby? Una prospettiva dalle Scienze per la pace
Nel corso di 13 anni di vita l’Osservatorio media permanente Nimby Forum – oggi purtroppo interrotto – ha preso in esame, attraverso il monitoraggio di oltre 1.000 testate giornalistiche, il diffondersi lungo lo Stivale di numerosi conflitti riguardanti la realizzazione di opere di pubblica utilità o insediamenti industriali.
Il contrasto derivante da obiettivi apparentemente molto distanti tra loro, pur se condotto all’interno di gruppi sociali generalmente ristretti, ha portato nel 2018 (ultimo anno censito) a contare 317 microconflitti di questo tipo nelle relazioni tra cittadini, imprese proponenti e istituzioni, che talvolta possono finire per essere gestiti attraverso strumenti violenti.
Il comparto più contestato è risultato quello energetico, assommando il 57,4% delle opposizioni, e all’interno di questo comparto le contestazioni che riguardano impianti alimentati da energie rinnovabili rappresentano ben il 73,3% del totale, frequentemente bloccati da fenomeni cosiddetti sia Nimby (Non nel mio giardino) sia Nimto (Non nel mio mandato elettorale). E lo stesso si può dire per quanto riguarda l’infrastruttura impiantistica necessaria all’economia circolare, seconda in classifica dopo il comparto energetico.
Appare dunque d’interesse prioritario per la collettività capire come trasformare i comportamenti conflittuali competitivi che generalmente caratterizzano le contestazioni Nimby in comportamenti conflittuali cooperativi, dove il conflitto possa essere trasformato e visto come un gioco a somma positiva, inquadrando formule risolutive win-win: in altre parole occorre trasformare i microconflitti Nimby in occasioni di sviluppo inclusivo per tutte le parti in causa.
Come? Ci sono alcuni elementi generalmente trasversali a tali proteste, come la strutturale mancanza di fiducia verso le aziende proponenti gli impianti, e soprattutto verso le istituzioni che dovrebbero regolarne l’operato. Partire da questa consapevolezza può suggerire un piano d’azione.
Intraprendere un dibattito pubblico permette ad esempio di avviare un confronto tra istituzioni e cittadini in grado di favorire la diffusione – e la comprensione – di informazioni autorevoli in merito alle caratteristiche dell’impianto in oggetto e alle conseguenze legate alla sua realizzazione (o meno, con l’alternativa zero), oltre a favorire un confronto costruttivo sugli elementi di frizione come sulle opportunità di sviluppo.
Ma eventuali posizioni ostracizzanti possono essere più facilmente superate anche grazie a misure che rendano la realizzazione degli impianti economicamente conveniente, e in modo diretto, per i soggetti sociali coinvolti. Il crowdfunding, ad esempio, offre per i cittadini la possibilità di contribuire finanziariamente agli investimenti sugli impianti utili alla transizione ecologica, ottenendo in cambio interessi annui.
Anche la promozione del consumo collettivo di energia legato alla costruzione di un impianto a fonti rinnovabili facilita il permitting: in questo caso è possibile costituire localmente organizzazioni aventi personalità giuridica, in modo da poter giungere alla stipula di contratti per l’acquisto a lungo termine di energia (Ppa) a prezzi competitivi. Tra i vari soggetti giuridici possibili appaiono particolarmente promettenti le Comunità energetiche – associazioni di cittadini o imprese per la produzione e l’autoconsumo di energia da fonti rinnovabili –, che riguardano però solo impianti di piccola taglia.
Alla luce degli strumenti d’analisi propri delle Scienze per la pace, in tutti i casi sopra esposti si tratta di proposte volte a cambiare la percezione che i vari attori hanno del conflitto in cui si trovano coinvolti, promuovendo l’emersione di interessi non esplicitati o di eventuali esigenze fondamentali (come quella all’identità) messe in discussione dalla realizzazione dei numerosi impianti alimentati da energie rinnovabili richiesta dalla lotta alla crisi climatica in corso: una prospettiva, questa, di per sé foriera di un interesse comune e dunque di un possibile terreno d’incontro per risolvere la contraddizione al centro della sindrome Nimby.
All’interno di questa prospettiva sarebbe utile affiancare a strumenti operativi come quelli appena accennati – oltre all’imprescindibile funzione di un’informazione ambientale accurata e scientificamente fondata – l’approccio trasformativo ai conflitti proposto da John Burton, con la messa in opera di più workshop in grado di favorire localmente il cambiamento nelle percezioni e relazioni tra i contendenti, e in definitiva una migliore comprensione reciproca.
Per la buona riuscita di simili workshop sarebbe ovviamente imprescindibile il sostegno e la partecipazione istituzionale, in quanto è proprio nelle istituzioni e nel loro operato (o meno) che sta il cardine di ogni sindrome Nimby: è l’autorità preposta a stabilire le coordinate dello sviluppo, ad autorizzare o no l’impianto, a dettarne i limiti attraverso un’Autorizzazione integrata ambientale e ad esigerne il rispetto, garantendo la sostenibilità del progetto.
In definitiva sta proprio a chi le istituzioni le rappresenta prendere una decisione nel merito – o dilazionare, o cavalcare la protesta per mero tornaconto elettorale – e dunque affrontare il dissenso, da una parte o dall’altra. Le Scienze per la pace propongono un’alternativa in più: raggiungere lo scenario in cui non si dia vita al compromesso, ma ad una soluzione creativa che possa trasformare il conflitto in una relazione proficua per tutti gli attori – o quantomeno per una loro larga maggioranza – che vi prendono parte.