Nella grande palude del Pnrr, dall’Italia più forte e più green al rischio flop
Con la sonora sconfitta dell’estrema destra della Le Pen al ballottaggio francese, molto probabilmente tra una decina di giorni Ursula von der Leyen, ricandidata in pectore alla presidenza della Commissione europea, presenterà all’Europarlamento il suo nuovo programma per il prossimo quinquennio, con linee di bilancio e strategie per raggiungere, si spera, gli obiettivi della "tripla” transizione green: energetica con fonti rinnovabili per l’azzeramento delle emissioni di CO2 entro il 2050, digitale a salvaguardia di tutele sociali, e green per l’adattamento al clima cambiato e come fattore competitivo per l’industria e la manifattura del continente. Si spera, dunque, nella continuità e anzi nel rafforzamento ambizioso del Green deal, e delle risorse del NextGenerationEu, lo straordinario strumento finanziario da 750 miliardi di euro, il più grande pacchetto economico mai finanziato dall’Ue per il periodo di programmazione 2021-2027 per far fronte ai danni economici e sociali dell’emergenza Covid-19, e successivamente alla crisi energetica dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina. Nel drammatico aprile del 2020 in piena emergenza sanitaria, la Commissione europea, il Parlamento e i leader dell’UE concordarono l’apertura di un fondo per risollevare le economie, definitivamente approvato nel Consiglio europeo straordinario del luglio 2020. Erano i “Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza” con obiettivi, riforme, investimenti mirati per rendere ogni Paese “più equo, verde e inclusivo, con un’economia più competitiva, dinamica e innovativa”. Ognuna delle 6 “missioni” - digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e Ricerca; inclusione e coesione; salute – aveva traguardi da rispettare con fasi di valutazioni di avanzamento per gli esborsi.
Dal “Nuovo miracolo economico italiano” alla palude. Il Pnrr affacciato sul grande rischio flop
Quasi quattro anni fa, in una Italia in depressione generale si affacciò uno sconosciuto acronimo: il Pnrr. Quando tutti capimmo che si trattava di una insperata e clamorosa pozione magica distribuita da Bruxelles per rifare anche l’Italia, fu subito festa, e diventò “l’occasione storica mai vista”, “il Piano che farà l’Italia più forte e più green”, “il lancio del nostro nuovo miracolo economico”, “il più grande investimento pubblico per le città e infrastrutture”, “il nuovo Piano Marshall”, “la nostra grande fortuna”.
Con solenni promesse di efficienza nella spesa e tra buoni propositi manifestati di fronte alla Commissione europea, il Pnrr Italia partì con una prima versione che stabiliva la destinazione di utilizzo del fondo approvata nel gennaio 2021 dal governo Conte II, e poi ufficialmente, con il governo Draghi, il 5 maggio 2021, con la pubblicazione sul sito della Presidenza del Consiglio del testo del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” trasmesso alla Commissione, titolato: “Italia domani”. Il valore complessivo era di 235 miliardi di euro, una montagna di soldi formata da 191,5 miliardi dell’Ue – 68,9 a fondo perduto e 122,6 di prestiti –, più 13 miliardi del React Eu e 30,62 del Fondo complementare. E giù grandi impegni presi, ammonizioni a non sbagliare, sollievo per il default finanziario e la grande depressione scampati, soprassalti di buone intenzioni.
L’impegno preso da tutti era di investirli tutti in appena 6 anni. L’impresa era titanica, considerando lo spaventoso depauperamento delle strutture tecniche della nostra Pubblica Amministrazione e la scarsissima coesione e collaborazione politica. Bisognava dunque riorganizzarsi, ristrutturare e rendere fortissime le aree tecniche a vari livelli, semplificare il più possibile le procedure, cercare la massime intese politiche, individuare filiere esecutive super efficienti e già pronte per progettazioni e aperture e direzioni di cantieri, mettere al lavoro la nostra splendida rete delle professioni e magari rimettere a lavorare gli splendidi ingegneri e architetti e geometri pensionati della PA esattamente come era stato fatto per i medici nell’emergenza Covid, e stimolare aziende e società private. E soprattutto condividere con maggioranze e opposizioni governance centrali e regionali e locali del Pnrr. Insomma, quel che si definisce “lavoro di squadra”, ben comunicato e in piena trasparenza.
Invece, è accaduto quasi l’esatto contrario. Il Pnrr italiano per gli italiani è rimasto un acronimo, gestito individuando la classica filiera ministeri-regioni-comuni con impegni straordinari di tanti dirigenti e tecnici, ma spesso con l’approccio della “normale amministrazione”, con fasi di paralisi, rimodulazioni, incongruenze, caos e perdite di tempo. Oggi, in vista del taglio del traguardo fossato al 31 luglio del 2026, giorno in cui tutti i cantieri dovranno essere conclusi e tutti i soldi spesi pena la restituzione dei fondi impegnati, sul mitologico Piano si allunga sempre di più l’ombra impietosa della colossale débâcle.
Le grandi lezioni dei fallimenti del passato sono servite a poco, e se l’Italia velocemente e con senso di responsabilità non corre ai ripari invertendo la rotta verso l’iceberg, aggiungeremo una nuova prova di incapacità nella “messa a terra” di progetti ben finanziati e riforme per modernizzare e rendere resilienti i nostri asset fondamentali. Dimostreremo anche di non saper recuperare i nostri ritardi digitali o infrastrutturali o nei servizi pubblici e sociali, nella gestione dell’acqua o nell’adattamento climatico. Che quel che noi italiani facciamo da sempre all’estero, facendoci riconoscere in positivo e mettendo in pista il meglio delle capacità realizzative di tante nostre aziende molto applaudite e parecchio contese, in Italia incontra barriere di burocrazie e di inefficienza insuperabili, frammentazioni di competenze e l’incapacità politica nel saper fare squadra quando occorre fare squadra.
Il confronto con i Paesi Ue. Avere soldi e non spenderli e la Corte dei conti svela la furbata nei conteggi
Il 2 luglio scorso, conclusa l’ennesima estenuante fase di trattativa con la commissione Ue per l’erogazione della quinta delle dieci rate concordate nelle dieci valutazioni intermedie dell’attuazione del Pnrr, all’annuncio roboante di Raffaele Fitto, ministro al Pnrr, Affari Europei, Sud e Coesione, che indicava l'Italia “Primo Paese in Europa per obiettivi, riforme e investimenti realizzati nell'ambito del Pnrr”, seguiva il video esultante della Presidente del Consiglio, orgogliosa per “l’Italia primo Paese in tutta l’Unione europea per obiettivi raggiunti e avanzamento finanziario del Pnrr”.
Magari fosse vero! I numeri, ahinoi!, sono sempre argomenti testardi, riducono l’enfasi e smentiscono oggi, come ormai da 4 anni, ogni rivendicazione di primati raggiunti. Sul sito pagellapolitica.it, Carlo Canepa analizza i dati della Commissione europea sullo stato di avanzamento dei piani nazionali di ripresa dei 27 Paesi Ue. Mostra l’Italia con 178 dei 617 traguardi e obiettivi concordati - il 29% sul totale -, ai quali saranno ora aggiunti i 54 traguardi e obiettivi raggiunti dal governo Meloni per l’accesso alla quinta rata che il “Comitato Economico e Finanziario” ufficializzerà portando così la percentuale di attuazione del nostro Pnrr al 37%. Ci superano però la Francia al 73%, la Danimarca con il 46%, il Lussemburgo con il 43%, Malta al 39%. Ad oggi l’Ue ha erogato all’Italia 4 rate del Pnrr, e sta aggiungendo la quinta rata grazie alla quale saliremo al 58,4% dei fondi Pnrr ricevuti, tra le più alte percentuali dell’Ue dopo la Francia e la Danimarca rispettivamente al 76,6% e al 59,3%. Quattro Paesi hanno un Pnrr più “ricco” del nostro correlato al valore dei Pil nazionali: il piano della Grecia vale il 16,3% del loro Pil, quello della Croazia il 13,1 e quello della Spagna l’11,1.
Ma, classifiche a parte, il nostro punto dolens è evidente. Perché un conto è ricevere soldi e vantarsi di essere riusciti ad averne tanti, un altro è averli spesi e un altro ancora è essere sicuri di spenderli tutti. Le furbate adottate negli anni non servono. Il ministro Fitto, ad esempio, a fine 2023 dichiarava una spesa del Pnrr pari a 43 miliardi di euro, il 43%. Sarebbe stata una notevolissima performance, peccato che quella percentuale sbandierata come un trofeo, era in realtà solo del 15% poiché nei conteggi del totale degli investimenti furono inserite anche le risorse nazionali di vari incentivi fiscali. Non possono rientrare nei finanziamenti Pnrr, eppure le conteggiarono.
I disallineamenti disarmanti tra entrate e uscite, in assenza di quel portale pubblico per la totale trasparenza dell’avanzamento del Pnrr promesso 4 anni fa e mai realizzato, sono però monitorati anche dalla Corte di Conti. Che il 28 marzo del 2023, in un dossier di ben 386 pagine, verificò tassi di realizzazione bassissimi intorno al 12%, con appena 23 miliardi spesi, metà del previsto, e una spesa rendicontata “drogata” proprio dagli incentivi in “automatico” previsti nei piani nazionali precedenti ma fatti traslocare nel Pnrr. Si trattava dei crediti d’imposta della Transizione 4.0, dei bonus edilizi e dei superbonus. Senza quegli incentivi all’industria e all’edilizia, la spesa reale dei fondi Pnrr calava a 10,024 miliardi, appena il 6% del totale! E già allora i magistrati contabili lanciavano alert al Parlamento e al Governo, sottolineando come “…oltre metà delle misure interessate dai flussi mostra ritardi o è ancora in una fase sostanzialmente iniziale dei progetti…". E i ritardi si accumulano. Il Piano “Italia 5G”, per dire, resta oggi uno degli investimenti con i maggiori ritardi nel Pnrr, con i dati ufficiali del maggio scorso sulla piattaforma “connetti.Italia” che riporta appena il 15,38% delle aree completate e connesse, e siamo già a due anni dall’assegnazione del bando per la copertura finanziaria e a due anni dalla conclusione dei lavori.
L’ammonizione del governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta
Nella relazione annuale del 1 giugno scorso, il governatore della Banca d'Italia Fabio Panetta da Palazzo Koch ha ammonito il governo sul Pnrr spiegando che, “se mette a disposizione dell'Italia 85 miliardi di euro complessivi per l’ammodernamento del sistema produttivo e della PA: secondo nostre elaborazioni, 16 miliardi per la digitalizzazione, 19 per la ricerca e l’innovazione, 33 per le infrastrutture di trasporto e 17 per gli investimenti delle imprese, utilizzare al meglio queste ingenti somme in tempi contenuti è arduo per le Amministrazioni. Ma è cruciale per risollevare la crescita potenziale dell’economia”. Per Panetta “la piena attuazione degli investimenti e delle riforme previste dal Pnrr – oltre a innalzare il prodotto di oltre di 2 punti percentuali nel breve termine – avrebbe effetti duraturi sulla crescita dovuti a incrementi di produttività stimabili tra 3 e 6 punti percentuali in un decennio".
La verità amara è che la spesa è in cronico ritardo sulle tabelle di marcia. E la stessa Commissione europea nelle annuali “raccomandazioni specifiche per Paese”, lo scorso 19 giugno raccomandava all’Italia di “affrontare i ritardi” nell’attuazione, nel rispetto degli impegni e per il grande valore economico complessivo del piano con un numero di traguardi e obiettivi da raggiungere, questi sì, da record europei. Ma tant’è, tutto procede come se il Pnrr non esistesse e con tagli paradossali alla spesa corrente dei comuni più virtuosi che sanno utilizzare le risorse del Piano. Un controsenso finanziario, da ritorno ai tempi dell’austerità con la contrazione di 11,5 miliardi di euro nei lavori pubblici per la valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei comuni (6 miliardi), piani urbani integrati (-1,6 miliardi), rigenerazione urbana (-1,3 miliardi).
Lo stress del Pnrr. Il piano di 6 anni finora gestito con 3 diversi governi e 3 diverse governance in soli 4 anni
L’Italia ha sottoposto un piano finanziario da miracolo economico della durata di 6 anni allo sfinimento di ben 3 revisioni istituzionali con 3 rimodulazioni complessive delle governance e degli obiettivi in soli 4 anni nelle fasi di passaggio di ben 3 diversi governi, con mesi di blocco totale delle attività ministeriali e del Parlamento. Una follia per qualsiasi programmazione di grandi investimenti.
Iniziò il governo Conte 2 centralizzando governance e centro di comando a Palazzo Chigi. Con la caduta del governo saltò tutto, e arrivò il governo Draghi il 13 febbraio 2021 e da Palazzo Chigi la governance del Pnrr fu trasferita al Ministero dell’Economia e delle Finanze e alla Ragioneria Generale dello Stato. Ma con la caduta del governo Draghi risaltò tutto e il 22 ottobre 2022 arrivò il governo Meloni che riportò le competenze del Pnrr e la regia a Palazzo Chigi. In più soppresse l’Agenzia per la Coesione Territoriale che operava al Sud, lasciando a lungo nel caos l’operatività, sostituita poi dal “Dipartimento per le Politiche di coesione della Presidenza del Consiglio dei ministri” che ne ha assorbito risorse umane, strumentali e finanziarie. Tre stop and go, tre riorganizzazioni una dietro l’altra! Un errore fatale.
Rimodulazioni, cancellazioni e traslazioni. Così la spesa è sempre più rinviata
La verità è che dal conto alla rovescia del Pnrr iniziato ufficialmente il 13 luglio del 2021, le tabelle di marcia non stanno marciando come dovrebbero verso il traguardo del 31 luglio del 2026, giorno in cui i cantieri dovranno essere conclusi pena la restituzione dei fondi impegnati. Ci sarebbe la vaga speranzella di una proroga di uno o due anni da parte della Commissione, ma se tutto resta come è non salverebbe comunque la faccia all’Italia, e anzi indicherebbe platealmente il nostro flop. Perché fin dal primo step della prima valutazione di tre anni fa, e poi nelle defatiganti trattative successive, ai tavoli e nelle call con i supertecnici della Commissione europea, le parole più ripetute sono state: rimodulare, ricalibrare, traslare, cancellare. Con suppliche a Bruxelles di chiudere un occhio sulle falle operative e di filiera, per ammorbidire le Operational Arrangements per i riconoscimenti semestrali delle rate.
Per un po’, ai primi giri di boa delle prime tre rate, la Commissione ha persino abbozzato, graziando l’Italia e sperando in performance migliori. La prima rata di 24,9 miliardi venne erogata nell’agosto 2021, la seconda da 21 miliardi a fine aprile 2022, la terza da 21,8 miliardi euro il 28 luglio 2023 dopo un interminabile esame con un tira e molla durato mesi per via della gran parte dei 55 obiettivi della rata non centrati. Solo a fatica arrivò l'ok dei tecnici di Bruxelles, ma l’Italia pagò carissimo il superamento dell’esame facendo saltare diversi impegni presi nel piano come per i 7.500 posti letto negli alloggi universitari entro il 2022 sostituito dal molto meno impegnativo “obiettivo qualitativo” dell’avvio delle gare, così per gli asili nido traslati sulla quarta rata ma riducendo i previsti 265 mila posti in più, per meno scuole da mettere in sicurezza, meno impianti agri-fotovoltaici e comunità energetiche. E sono state 144 le modifiche a progetti e riforme causa infiniti problemi dagli aumenti di costi di materie prime e ritardi sulle riforme.
Un pessimo segnale fu poi la fase caotica con proteste di sindaci e presidenti di Regione di ogni latitudine politica dopo l’annuncio del ministro Fitto dopo l’estate del 2023 del “definanziamento” di 16 miliardi di euro di opere, peraltro in parte già al dopo gara, o in corso o addirittura concluse ma considerate a sorpresa “non finanziabili” poiché “non ce la faranno mai entro il 2026”. Fitto promise allora coperture con scambi tra Pnrr e Fondi di Coesione, RePowerEu e nazionali, ma senza dettagliare cifre e tempistica, come rilevò anche l’ufficio studi della Camera. Colpirono anche i target della lotta al dissesto idrogeologico, per la depurazione delle acque reflue con reti fognarie e depuratori al Sud per far uscire dal Medioevo 2,57 milioni di italiani e ridurre le sanzioni Ue per 125mila euro che paghiamo ogni santo giorno. E anche i 2 miliardi da spendere per le infrastrutture idriche slittarono dal 31 dicembre 2023 al 30 giugno 2026, e oggi il Mit annuncia che arriveranno entro luglio 946 milioni per i primi 73 progetti del nuovo “Piano nazionale di interventi infrastrutturali e per la sicurezza del settore idrico”.
E anche l’ultima relazione della Corte dei Conti aggiunge un quadro allarmante per l’ennesima “ri-programmazione della spesa” tutta giocata sulla continua “traslazione” in avanti delle previsioni di spesa del primo quinquennio del Pnrr. In realtà, si posticipano continuamente in ogni missione miliardi che avrebbero dovuto essere già stati trasformati in cantieri chiusi nel periodo 2020-2022. La “traslazione”, annotano i giudici contabili, risulta particolarmente accentuata nel 2023, con una riduzione della spesa prevista di 9,7 miliardi di euro sul programmato.
Inizia l’inesorabile countdown. Ma ci sono 150 miliardi non spesi e da investire
L’Osservatorio civico indipendente “Openpolis”, monitorando fin dall’inizio le fasi del mega-piano, oggi rileva sul livello di spesa al 31 dicembre 2023, un budget da sogno pari a oltre 150 miliardi di euro ancora fermi, non trasformati in progetti e cantieri. Un dato che conferma i clamorosi ritardi accumulati fin dalle prime fasi di attuazione e mai recuperati.
Alle stesse conclusioni arriva anche l’ultimo corposo Rapporto del Centro Studi Confindustria – coordinato da Alessandro Fontana e Ciro Rapacciuolo –, che dimostra chiaramente il peso delle due “incognite” del Pnrr. La prima è la storica difficoltà di spesa della PA, la seconda lo spostamento sempre più avanti nel tempo di larga parte della spesa programmata. Le spese pianificate per il biennio 2025-2026, si legge “hanno raggiunto un ammontare molto elevato e cresce quindi il rischio di non riuscire a realizzare gli interventi previsti. In termini di spesa, le risorse finora erogate sono solo un quarto della dotazione complessiva, quelle “impegnate”, per le quali vi è già un’obbligazione di pagamento, sono oltre la metà”. Analizza il Pnrr rimodulato nel 2023 per un valore di 194,4 miliardi di euro (+2,9 miliardi rispetto al Pnrr originale), di cui 71,8 (+2,9) in sovvenzioni e 122,6 in prestiti. Il passaggio da 6 a 7 missioni, per complessive 66 riforme e 150 investimenti. Con traguardi e obiettivi saliti da 527 a 617.
Per il 2024, l’Italia si è impegnata a conseguire 113 tra traguardi e obiettivi, di cui 39 nel primo semestre e 74 nel secondo, che consentiranno di sbloccare la sesta rata da 9,2 miliardi e poi la settima da 19,6. Un bel pacchetto di risorse è destinato alla “Transizione 5.0”, alle “filiere green e net zero technologies”, ai contratti di sviluppo della filiera agroalimentare, ai parchi agri-solari, al sostegno a investimenti green. Ma la stessa Confindustria rileva un impatto macroeconomico della rimodulazione “dai contorni poco chiari”. Un anno fa, stimava l’impatto complessivo del Pnrr sul Pil a fine 2026 di 2,8 punti percentuali in più rispetto allo scenario base, sottolineando una “acclarata difficoltà nella capacità di spesa da parte della PA”. Oggi calcola che finora è stato speso solo circa un quarto delle risorse Pnrr, al 25 marzo 2024 complessivamente quasi 45 miliardi di euro su 194,4, il 23%. L’aggiornamento ha poi spostato ai prossimi anni 18,3 miliardi, portando così la spesa pianificata per il biennio 2025-2026 a livelli elevatissimi “che suscitano preoccupazione circa l‘effettiva possibilità di realizzazione”.
Sul totale di 194,4 miliardi, rileva, restano da spendere i tre quarti, circa 150 miliardi, nel solo triennio 2024-2026. Nel 2023 sarebbero stati spesi 21,1 miliardi, quasi come nel biennio 2021-2022 (22,4 miliardi), quando però non si era ancora nella fase attuativa.
Il solo dato incoraggiante per Confindustria è il valore delle risorse già “impegnate”, pari a circa 100 miliardi, e accantonate dai “Soggetti attuatori” per il pagamento dei soggetti realizzatori di lavori o servizi con “contratti giuridicamente vincolanti, seppur ad oggi non si siano ancora verificate spese, e la PA non abbia ancora effettuato pagamenti a favore dei soggetti realizzatori”. L’analisi del Centro Studi Confindustria evidenzia altri gap: “il sistema di rendicontazione Regis risulta ancora caratterizzato da gravi criticità, nonostante i circa 2 anni di operatività, almeno da quanto si desume nell’utilizzarlo come strumento di monitoraggio: i dati della sezione “cruscotto” sono incompleti, non aggiornati e talvolta incoerenti tra loro; gli open-data contengono valori errati (es. ci sono spese riferite, erroneamente, al 1900), probabilmente perché in fase di caricamento non sono stati previsti dei controlli; alcuni file non sono aggiornati correttamente (es. gli open-data su traguardi e obiettivi riportano dati nuovi mescolati ai vecchi, rendendo quindi difficoltoso il loro utilizzo)”.
E Giuseppe Busia, Presidente dell'Autorità nazionale Anticorruzione, nell’intervista di Flavia Landolfi sul Sole 24 ore sabato scorso, notava che sul fronte del Pnrr “…le cose non marciano...È innegabile che, specie per i lavori, adesso cominci la fase più difficile, quella della realizzazione. I numeri incoraggianti sui codici di gara da noi rilasciati, purtroppo non bastano a tranquillizzare del tutto, in quanto indicano solo l'avvio delle procedure e non il fatto che le amministrazioni saranno in grado di chiuderle in tempo. Aprire un cantiere, infatti, non assicura il completamento dei lavori in tempo utile e in modo adeguato: lo dimostrano chiaramente i dati preoccupanti sulla spesa effettiva”.
La strada, con l'avvicinarsi della scadenza del 2026, si fa sempre più in salita e sempre più ripida per i ministeri e per tutte le articolazioni dello Stato nei diversi livelli territoriali che chiedono risorse ma spesso nell’incapacità di spenderle. Basta del resto girare per uffici ministeriali, regionali e comunali per capire che aria tira, cogliendo stati generali di disillusione e un clima da ordinario tran tran.
Il Pnrr come la figuraccia nazionale di calcio agli europei o lo sprint finale da Piano Marshall?
Un dato condiziona da sempre con tutta evidenza le sorti del Pnrr: l’assenza del clima da grande impresa nazionale, la mancanza di quel “tocco magico” della coesione politica e della mobilitazione del meglio delle capacità tecniche e realizzative del Paese, della condivisione tra maggioranza e opposizioni e di una buona e trasparente comunicazione al Paese. Un clima mesto e rassegnato da espulsione dai campionati europei.
Eppure, il tempo ci sarebbe per recuperare lo spirito d’impresa da Piano Marshall, l’European Recovery Program per la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, che fu la pista di lancio del boom economico degli anni Sessanta grazie a 1,5 miliardi di dollari donati a fondo perduto dallo zio Tom. Valeva come un Pnrr di oggi da 164 miliardi di euro! L’impresa la fece l’Italia di De Gasperi e Einaudi, ma con chiari sostegni delle opposizioni per modernizzare e rifare reti elettriche, acquedotti e fognature, ferrovie, case popolari, 204 strade, 70 ospedali, 188 scuole, porti. Fu una battaglia corale, e quella montagna di dollari trasformò l’Italia.
Così anche l’epopea successiva al Sud della “Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nel Mezzogiorno d’Italia”, istituita con legge 646 del 10 agosto 1950. Altra case history fino al 1965, sotto la regia del grande economista Pasquale Saraceno, che portò nelle aree depresse e assetate del Mezzogiorno con le prime grandi adduzioni idriche per rilanciare l’agricoltura, le aree industriali, il turismo con l’apertura di siti archeologici unici al mondo. Investirono oltre 1.200 miliardi di lire in una Italia dove il 92,6% delle abitazioni del Sud non aveva il rubinetto dell’acqua potabile e solo il 27% il gabinetto. Bisognava correre e l’Italia fece un’altra impresa condivisa.
E oggi? Siamo l’Italia che lascia passare l’immagine del trascinamento come un peso da togliersi di dosso prima possibile della più straordinaria opportunità economica e di rilancio. Le missioni, gli obiettivi, gli investimenti, le riforme non mobilitano anche perché manca una cornice, una visione complessiva condivisa e comunicata. Passano solo divisioni e polemiche, tagli e ritagli, rimodulazioni e traslazioni e nessuno si fila i cantieri già chiusi, nessuno annoda i fili dei progetti a pioggia con circa 6.000 soggetti attuatori e oltre 150 mila bandi da concretizzare.
Siamo però al rush finale. Per toglierlo dalla palude, dove resta impantanata anche la transizione green, greenreport non poò che lanciare un appello per il massimo sforzo in prossimità del traguardo che si avvicina. Non aggrappiamoci sfiduciati alla dea della fortuna Tyche, ma alla buona politica. Chi ha leve di poteri e ambizioni lanci l’impresa, provi a condividerla, a entusiasmare mostrandone i benefici, lanci quella che ai tempi si definiva "mobilitazione straordinaria" perché di fronte non c'è il futuro di una coalizione politica ma dell’Italia. Ne vale la pena perché non vale la pena continuare a farsi del male.