Per l’ultima goccia. All’alba della crisi climatica, una speranza s’affaccia sulla costa del Maghreb
La narrativa ricorrente sul tema del cambiamento climatico ci propone generalmente vicende da “climate fiction”, ambientate in un futuro fantascientifico e apocalittico, sufficientemente distanti da noi da risultare tutto sommato rassicuranti. “Per l’ultima goccia”, il nuovo romanzo di Piero Malenotti edito per i tipi di “Sensibili alle Foglie”, ci presenta invece la crisi climatica collocata nel nostro tempo, vissuta da protagonisti che ne pagano in prima persona le conseguenze già in atto, con un approccio in grado si spalancare una finestra sull’incapacità di arrestare un modello di sviluppo insostenibile.
L’autore ci avverte, in una breve nota che precede l’inizio del testo, che gran parte della narrazione si svolge ad El Amal, cittadina del Maghreb con nome di fantasia, “uno spazio dell’immaginario” dove si materializzano le persone e le sensazioni reali da lui incontrate durante una lunga permanenza sulla costa atlantica del Marocco.
Il protagonista del romanzo è un giovane ingegnere minerario, specializzato nella progettazione e gestione di impianti per l’estrazione di petrolio e gas, dipendente di una grande compagnia petrolifera con sede a Roma. Al rientro nella sua città da una difficile missione di lavoro in Nigeria, il giovane decide di accettare un nuovo incarico in Marocco, dove sarà responsabile della realizzazione di una piattaforma di estrazione in mare localizzata al largo della costa atlantica. L’incontro con l’affascinante ricchezza della cultura marocchina ha un forte impatto sulla sua vita: l’ingegnere affitta una casa nella medina di El Amal, entra in contatto con la particolare atmosfera che si respira in quei vicoli, ma anche con la protesta della popolazione locale nei confronti dell’impatto che l’impianto petrolifero e le attività collegate rischiano di provocare sull’economia tradizionale della cittadina, incentrata sulla pesca artigianale e sulla pastorizia.
Il protagonista vive questo periodo in crescente stato di contraddizione. È appassionato del suo lavoro, ma i rapporti locali gli consentono di comprendere più a fondo le ragioni della protesta, fino a stringere un’insolita e sincera amicizia con Omar, il capo della cooperativa dei pescatori, e a constatare i danni che uno sviluppo eterocentrato si appresta ad apportare al tessuto sociale della comunità locale, già colpita dalla siccità e dai primi segnali evidenti del cambiamento climatico.
Il finale, inatteso e catartico, ha il merito di condurre la riflessione del lettore all’urgenza di cambiare passo nella transizione verso un nuovo modello energetico e di relazioni economiche. Mentre procedono a rilento le attività della macchinosa diplomazia internazionale sul clima che ripete da un quarto di secolo il rito delle periodiche conferenze, incapace di imprimere al cambiamento il ritmo necessario, i più vulnerabili stanno già pagando, ora e ovunque, le conseguenze del disastro ambientale, a partire dai territori a cui viene imposto un ruolo di servizio.
Al termine della lettura, interessante e coinvolgente, del romanzo di Malenotti, forse è opportuno richiamare le parole di Amitav Gosh, il grande scrittore indiano, formulate nel suo saggio del 2016 “La grande cecità”. “In un mondo sostanzialmente alterato, un mondo in cui l’innalzamento del livello dei mari avrà inghiottito le Sundarban e avrà reso inabitabili città come Calcutta, New York e Bangkok, i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi innanzitutto tracce e segni premonitori del mondo alterato che avranno ricevuto in eredità. E non trovandone, cosa potranno, cosa dovranno fare, se non concludere che nella nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù in modo da nascondere la realtà a cui si andava incontro?”.