Climate Change Performance Index 2025: Italia 43esima e in forte ritardo
Dal rapporto annuale “The Climate Change Performance Index 2024: Results” (CCPI 2025) di Germanwatch, Climate Action Network International (CAN) e NewClimate Institute - realizzato in collaborazione con Legambiente per l’Italia - sulla performance climatica dei principali Paesi del pianeta, risulta che «L’Italia, rispetto agli altri Paesi del Pianeta e dell’Ue, continua ad essere in forte ritardo sulle performance climatiche. Il Belpaese, dopo il crollo in classifica registrato lo scorso anno che le era valso il 44esimo posto, perdendo 15 posizioni, si conferma anche nel 2024 nella parte bassa della classifica, piazzandosi in 43esima posizione. Nessun miglioramento importante per l’Italia, che anzi resta in una posizione di stallo ben lontana dalle prime posizioni che vedono in testa, ma a partire solo dal quarto posto: Danimarca (4), Olanda (5) e Regno Unito (6). Sul risultato ottenuto dalla Penisola continuano a pesare il rallentamento della riduzione delle emissioni climalteranti (38° posto della specifica classifica) e una politica climatica nazionale (55° posto della specifica classifica) fortemente inadeguata a fronteggiare l’emergenza climatica con un PIENC poco ambizioso».
Il rapporto è stato presentato oggi alla Cop29 in corso a Baku e prende in considerazione la performance climatica di 63 Paesi, più l’Unione Europea nel suo complesso, che insieme rappresentano oltre il 90% delle emissioni globali. La performance è misurata, attraverso il Climate Change Performance Index (CCPI), prendendo come parametro di riferimento gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030. Il CCPI si basa per il 40% sul trend delle emissioni, per il 20% sullo sviluppo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.
Il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, ha commentato: «L’Italia sul fronte energetico continua ad avere una visione miope che non riduce le bollette pagate da famiglie e imprese, e che crea anche nuove dipendenze energetiche dall’estero, da Paesi sempre più instabili politicamente. Intanto la crisi climatica accelera il passo, gli eventi meteo estremi nella Penisola sono sempre più frequenti e con impatti pesanti anche sul mondo produttivo e dell’agricoltura, che avrebbero tutto l’interesse a promuovere politiche coraggiose per la riduzione delle emissioni climalteranti, come previsto dal Green Deal europeo. Se l’Italia vuole davvero voltare pagina e risalire anche la classifica delle performance climatiche, deve compiere un deciso cambio di passo con politiche climatiche più ambiziose e interventi decisi, anche nel settore della mobilità e dell’edilizia. Il nostro Paese può colmare l’attuale ritardo e centrare l’obiettivo climatico del 65% di riduzione delle emissioni entro il 2030, in coerenza con l’obiettivo di 1.5° C, grazie soprattutto al contributo dell’efficienza energetica, di rinnovabili, reti e accumuli, e dell’innovazione tecnologica. E’ su questo che deve lavorare in prima battuta, abbandonando la strada delle fonti fossili e del nucleare, lavorando per semplificare e velocizzare gli iter autorizzativi dei progetti di impianti e infrastrutture che vanno nella direzione della lotta alla crisi climatica e dell’indipendenza energetica».
Le associazioni sottolineano che «A pesare sulle performance dell’Italia un Piano Nazionale Integrato Energia e Clima poco ambizioso negli obiettivi generali di riduzione delle emissioni al 2030, ma anche nelle soluzioni, che si nasconde dietro il dito del pragmatismo e della neutralità tecnologica ricorrendo ancora una volta a false soluzioni (come la CCS e il nucleare) che faranno solo perdere tempo e risorse al nostro Paese, rischiando inoltre di rendere sempre meno competitiva l’Italia sia a livello europeo che mondiale. Il piano, infatti, consente una riduzione complessiva delle emissioni entro il 2030 di appena il 44,3% rispetto al 1990. Un ulteriore passo indietro rispetto al già inadeguato 51% previsto dal PNRR».
Eppure, secondo il Paris Compatible Scenario elaborato da Climate Analytics, l’Italia è già in grado di ridurre le sue emissioni climalteranti di almeno il 65% grazie al 63% di rinnovabili nel mix energetico ed al 91% nel mix elettrico entro il 2030. E così arrivare nel 2035 al 100% di rinnovabili nel settore elettrico, confermando il phase-out del carbone entro il 2025 e prevedendo il phase-out del gas fossile entro il 2035. Rendendo così possibile raggiungere la neutralità climatica già nel 2040 e vincere la sfida della duplice crisi, energetica e climatica, che rischia di mettere in ginocchio l’Italia.
Anche quest’anno le prime tre posizioni della classifica non sono state attribuite, in quanto nessuno dei Paesi ha raggiunto la performance necessaria per contribuire a fronteggiare l’emergenza climatica e contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5° C.
Jan Burck di Germanwatch e autore del CCPI, evidenzia che «Gran parte del mondo ha riconosciuto che le energie rinnovabili sono una scelta conveniente e sicura per l'approvvigionamento energetico. Le energie rinnovabili sono in corsia di sorpasso, soprattutto nel settore elettrico. Inoltre, c'è una crescente elettrificazione dei settori della mobilità, residenziale e industriale. La tendenza all'elettrificazione continua, mentre contemporaneamente si stanno sviluppando nuove tecnologie di stoccaggio. Tuttavia, c'è ancora una massiccia resistenza da parte della lobby dei combustibili fossili. I paesi non dovrebbero cadere ancora più in profondità nella trappola dei combustibili fossili».
La Danimarca rimane al primo posto (4°). E’ stata anche l'unico Paese a raggiungere un'elevata performance nella valutazione della politica climatica. Tuttavia, la Danimarca non ha ottenuto risultati sufficienti per ottenere una valutazione complessiva molto alta. La Danimarca è seguita dai Paesi Bassi (5°), sebbene il suo nuovo governo di destra non faccia presagire nulla di buono per la politica climatica. Il Regno Unito è stata la grande scalatrice della classifica di quest'anno e ha ottenuto il 6° posto grazie all'eliminazione graduale del carbone e l'impegno del nuovo governo laburista contro le nuove concessioni per i progetti sui combustibili fossili.
In coda alla classifica ci sono ancora una volta Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili: gli ultimi quattro paesi classificati nel CCPI sono l'Iran (67°), l'Arabia Saudita (66°), gli Emirati Arabi Uniti (65°, che nel 2023 ha ospitato la Cop28 Unfccc) e la Russia (64°). . Tutti e quattro sono tra i maggiori produttori di petrolio e gas al mondo. La quota di energie rinnovabili nel loro mix energetico è inferiore al 3%. Germanwatch denuncia che «Questi paesi non mostrano alcun segno di abbandono dei combustibili fossili come modello di business».
Ma a preoccupare è soprattutto il crollo in classifica della Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, che scende di 4 posizioni e scivola al 55esimo posto. scendendo a un livello molto basso perché «Nonostante piani, tendenze e misure promettenti, la Cina rimane fortemente dipendente dal carbone e non ha obiettivi climatici sufficienti. Tuttavia, stiamo vivendo un boom senza precedenti nelle energie rinnovabili e le emissioni sembrano aver quasi raggiunto il picco».
Invece gli Stati Uniti, secondo emettitore globale, rimangono stabili al 57esimo posto, tra i performer molto bassi. «Maggiori investimenti nelle energie rinnovabili e nei trasporti puliti, nonché la fine dei sussidi ai combustibili fossili sarebbero importanti passi successivi – sottolinea il rapporto - Tuttavia, l'esito delle elezioni ora potrebbe determinare le prestazioni climatiche negli Stati Uniti per i prossimi anni».
Per Burck, «Politicamente, sarà difficile per Trump porre fine alle tecnologie future verdi dell'Inflation Reduction Act di Biden, ma probabilmente le indebolirà».
Solo due membri del G20, Regno Unito (6°) ed India (10°) sono nella parte alta della classifica. La maggior parte dei Paesi del G20 (responsabile del 75% delle emissioni globali), si posiziona nella parte bassa. Mentre le nucleari Corea del sud (63°) e Russia (64°) e la petrolifera Arabia Saudita (66°) sono i Paesi del G20 con la peggiore performance climatica.
Janet Milongo, senior manager - energy transition di CAN afferma che «La disuguaglianza energetica continua a essere una realtà per molte persone nel mondo. È inaccettabile che i Paesi Bassi, ad esempio, abbiano più energia solare installata di tutta l'Africa. Lasciare indietro popoli o Paesi nella transizione si traduce in ingiustizia e frustra il raggiungimento degli obiettivi globali. La finanza basata su sovvenzioni pubbliche è fondamentale per garantire una transizione rapida, giusta ed equa verso le energie rinnovabili per tutti».
Un altro autore del rapporto, Niklas Höhne del NewClimate Institute aggiunge: «Il mondo è a un punto di svolta. Il picco delle emissioni globali è vicino. Ora è fondamentale che iniziamo un rapido declino. Ridurre drasticamente le emissioni è l'unica misura che può prevenire ulteriori pericolose conseguenze del cambiamento climatico. Il tempo stringe e abbiamo urgente bisogno di un'inversione di tendenza delle emissioni. Soprattutto con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Trump, ora abbiamo bisogno di una forte leadership da parte dell'Ue e dei suoi stati membri come la Germania, nonostante la crescente polarizzazione politica».
L’Unione europea rimane stabile a centro-classifica al 17esimo posto, ma con 16 Paesi nella parte medio-alta: Danimarca, Olanda, Svezia, Lussemburgo, Estonia, Portogallo, Germania, Lituania, Spagna, Grecia, Austria, Francia, Irlanda, Slovenia, Romania e Malta. La performance dell’Ue è condizionata anche dalla Germania, la maggiore economia europea, che scende di due posizioni al 16esimo posto. Thea Uhlich, co-autrice del CCPI, spiega che «Sebbene siano stati fatti notevoli progressi nelle energie rinnovabili, l'inazione politica nei settori dei trasporti e dell'edilizia porta ancora a emissioni elevate. L'azione per il clima in Germania e nell'Ue non dovrebbe essere messa da parte dagli attuali sviluppi politici globali, in particolare nella finanza per il clima».
Legambiente fa notare che «Soprattutto con la nuova Amministrazione Trump, è nell’interesse dell’Europa, fortemente colpita dalla crisi climatica, mettere in campo una forte leadership globale e fare da apripista dotandosi di un’ambiziosa politica climatica in grado di ridurre le emissioni climalteranti di almeno il 65% entro il 2030 e dell’82% per il 2035 in modo da poter raggiungere la neutralità climatica già entro il 2040».
Mauro Albrizio, responsabile ufficio europeo di Legambiente, conclude: «Per accelerare la transizione energetica e fronteggiare con successo l’emergenza climatica – commenta - non è sufficiente un’azione climatica ambiziosa dei Paesi industrializzati ed emergenti. Servono politiche climatiche altrettanto ambiziose nei Paesi in via di sviluppo. Cruciale, pertanto, è il ruolo che la finanza climatica è chiamata a giocare alla COP29 in corso a Baku. E’ indispensabile un accordo ambizioso in grado di mobilitare nei prossimi anni, come richiesto dall’Alleanza dei piccoli Stati insulari (AOSIS), almeno 1.000 miliardi di dollari l’anno di aiuti pubblici. Non solo per la decarbonizzazione dell’economia e l’adattamento ai cambiamenti climatici, ma anche per la ricostruzione economica e sociale delle comunità povere e vulnerabili messe in ginocchio dai disastri climatici sempre più frequenti e devastanti. Risorse che possono essere rese disponibili grazie anche alla tassazione delle attività a forte impatto climatico e al phasing-out dei sussidi alle fossili, in grado di mobilitare sino a 5.000 miliardi di dollari l’anno».