«Contro le alluvioni serve rapidamente un passo decisivo verso una comunicazione che salvi vite umane»
Tracimazioni, tombature, rotture di argini, frane, valanghe e, dulcis in fundo, “bombe d’acqua” o ancor meglio “slavine di acqua”. Fino a qualche anno fa, almeno le prime si chiamavano parole chiave nei lavori scientifici dedicati. Ora, che si chiamano keywords, sono divenute parole da social, piuttosto che da bar ma, cosa ancora più preoccupante, da linguaggio istituzionale. E a tutto ciò, si assomma puntualmente l’infinita serie di “passa post” che si leggono, sempre sul web, e che fanno sentire tutti esperti in materia, determinando quasi sempre ansie e paure nella già provata e poco preparata utenza. E allora, forse, non si deve più pensare, in maniera stucchevole, di chi è la colpa di questo scempio ambientale che produce quasi ogni giorno vittime e danni o parlare in maniera sterile di adattamento e mitigazione del rischio, ma occorre rapidamente fare un passo decisivo verso una comunicazione che salvi le vite umane. E questa comunicazione deve essere fatta da chi sa!
Ma si faccia un passo indietro, analizzando un caso specifico. Aree tra le più evolute socialmente ed economicamente d’Europa che oramai puntualmente “vanno sott’acqua”. Da oltre un decennio esse sono oggetto di studi tematici e dedicati estremamente approfonditi, piani di adattamento al climate change, piani clima, Paesc, contratti di fiume, progetti europei, azioni di green dial, giornate e serate di informazione e formazione, congressi, convegni, workshop…. ma gli output di ogni pur eccezionale, o forse non più, evento meteo idrologico peggiorano. Cosa c’è che non va? Forse la non corretta scrittura dei o delle azioni di mitigazione del rischio? Forse l’evidenza che la scienza e la tecnica spesso non sono più super partes rispetto alla politica o “affini”? Forse la mancanza di educazione civico-ambientale da parte del cittadino? O magari un mix di tali appena citate evidenze? Ecco. Forse è questo il reale problema che ci affigge, parlando il sottoscritto anch’esso da alluvionato di qualche anno fa. Ora, come avvenuto oramai un trentennio fa in Francia, si inizia a comprendere che l’educazione ambientale, deve necessariamente partire dai bimbi, già dalle scuole primarie, soprattutto perché essi saranno gli attori principi nel tentare di rendere resiliente quel poco di salvabile nell’ambiente fisico che le nostre generazioni non hanno distrutto. Ma soprattutto occorre rapidamente istituire un organo che finalmente faccia mettere intorno ad un tavolo, in maniera serie ed etica, tutti i protagonisti di questo mondo in evidente crisi climatica che per varie – dalla mancanza di cultura specifica alla non volontà di confrontarsi chissà per quale valido motivo – decidano cosa fare una volta per tutte, con un unico e supremo fine: salvare vite umane. Già, perché il nostro orticello tecnico scientifico, culturale e ambientale, si chiama mondo.
di Massimiliano Fazzini, Coordinatore del team sul Rischio climatico della Società italiana di geologia ambientale (Sigea)