Alluvioni. Quando non si vuol centrare il problema
Recenti notizie dell’informazione scientifica sembrano aprire importanti spiragli per la cura di malattie croniche fino ad oggi fronteggiate con interventi poco efficaci e tanta rassegnazione. Il perché di questo incipit in un articolo che si prefigge di parlare di alluvioni è presto spiegato. La ricerca medica tenta, a volte riuscendoci, di curare la malattia senza avere chiari i fattori di rischio che ne stanno all’origine. Questi, infatti, per essere rivelati, richiedono indagini epidemiologiche molto complesse, lunghe e approfondite che alcune volte (vedi i casi relativi al fumo di tabacco o agli effetti procurati da atmosfere particolarmente inquinate) portano a individuare il fattore prevalente che consente di indirizzare stili di vita adeguati per ridurre l’incidenza della malattia. Ma spesso, e fortunatamente, non abbiamo altro che la cura e comunque in un contesto in cui il fine giustifica i mezzi.
Adottare lo stesso criterio per evitare gli effetti devastanti delle alluvioni (la “malattia”) sarebbe come ignorarne le vere cause che però, nel caso specifico, sono sotto gli occhi di tutti. Ciononostante c’è chi insiste nel tentativo di trovare una possibile “cura”, addebitando i disastri a fattori più disparati, utilizzandoli come alibi per non svelare le vere responsabilità. Uno dei più gettonati è quello che incolpa la presenza di animali selvatici, consigliandone l’eliminazione fino alla completa estinzione. Le tane, minando gli argini, sarebbero la vera causa delle alluvioni. In effetti esiste un nesso causale tra esse e l’indebolimento degli argini, specie quando questi sono sopraelevati, ma in un contesto in cui proprio gli argini sono il problema.
In altri casi c’e chi se la prende con la vegetazione riparia che, ostruendo gli alvei, favorirebbe il superamento degli argini durante la piena. Ma anche in questo caso l’anomalia sono ancora gli argini che, costringendo le acque in ambiti troppo ristretti, ne aumentano la forza distruttiva. Quindi non foreste riparie che al contrario producono una infinità di benefici (servizi ecosistemici) anche se chi ne propone la “pulizia”, dietro una spinta comprensibilmente emotiva, riesce ancora a trascinare le folle.
C’è anche chi invoca o realizza senza porsi tanti problemi il dragaggio degli alvei, vantandosi dei benèfici effetti che nell’immediato ne possono scaturire. Effetti che però hanno carattere effimero se confrontati con una dimensione temporale che ormai non va oltre il ripetersi del nubifragio. Le portate cosiddette formative, specie in corsi d’acqua raddrizzati, scalzeranno ancora più detriti a monte per riportarli a valle e ripristinare le condizioni iniziali. Un lavoro inutile che sottrae preziosi sedimenti al ripascimento delle coste.
C’è persino chi ha escogitato di accettare lo status quo con la proposta di consistenti polizze assicurative a copertura dei danni certi che si verificheranno alla prossima alluvione, infierendo così sulle potenziali vittime dei nubifragi, spesso illuse di ricevere indennizzi almeno dignitosi. A volte certe proposte vengono ritirate, sotto la spinta di un minimo di buonsenso, ma il solo fatto di enunciarle ci fa capire quanta opacità ci sia nell’affrontare il problema delle alluvioni e dei nubifragi, proprio perché non si riesce ad “inforcare le lenti adatte”.
Ciò che costa di più è abbandonare una formazione mentale le cui origini si perdono nel passato, al tempo in cui strappare spazio al divagare dei fiumi poteva costituire una questione di vita o di morte. Dalla nobile finalità di assicurare il sostentamento ad intere popolazioni si è con facilità passati alla speculazione urbanistica, mettendo paradossalmente in gioco la tutela del patrimonio edilizio ma soprattutto la sicurezza delle persone.
Tornando alla metafora della pratica medica, che spesso cura le malattie senza conoscerne le cause, nel caso di fiumi è chiaro che dovremmo restituire loro lo spazio sottratto, la vera causa che da troppo tempo ormai stiamo pagando a caro prezzo. Oggi gli eventi alluvionali hanno assunto dimensioni inattese per i ben noti effetti del clima, e la forza dirompente che sprigionano ha messo in risalto le fragilità del nostro territorio e richiesto di calcolare nuove previsioni di rischio, ma sarebbe un grave errore nascondersi dietro questa constatazione per non ammettere le vere responsabilità.
Dovremmo far tesoro delle normative concepite ed emanate per aumentare la consapevolezza del riscatto chiesto dalla natura che ci suggerisce la strada per rimediare agli errori fatti nel passato, ed ascoltare i consigli del mondo scientifico che, con grande responsabilità, interviene nel dibattito pubblico invitandoci a intraprendere quella strada, con un radicale cambio di paradigma.
Ma per restituire spazio ai fiumi sarà necessario spostare i beni esposti, fermare il consumo di suolo, ridurre gli usi agricoli, rivedere calcoli ormai superati e molto altro ancora, affrontando costi certamente enormi che andrebbero tuttavia valutati in termini di benessere sociale e tutela ambientale perché forse ci restituirebbero maggior sicurezza oltre a una vera rinascita degli ambienti fluviali e, in prospettiva, a un consistente risparmio sugli indennizzi.
Continuare imperterriti sulla vecchia strada significa accettare l’elevata probabilità di nuove esondazioni ma allora qualcuno dovrà coraggiosamente dirlo a coloro che si sono illusi di uscirne del tutto indenni, visto che il rischio nasconde sempre una consistente quota residuale.