
Nel 2080 Italia sempre più vecchia e spopolata: Istat stima 12,9 milioni di residenti in meno

Le previsioni demografiche dell’Istat sono costruite con l’obiettivo di rappresentare il possibile andamento futuro della popolazione e delle famiglie residenti, sia in termini di numerosità totale sia di struttura per età e sesso. Le previsioni sono aggiornate annualmente, riformulando le ipotesi evolutive sottostanti la fecondità, la sopravvivenza, i movimenti migratori internazionali e quelli interni, le strutture e le tipologie familiari. Quelle qui documentate si riferiscono all’ultimo esercizio prodotto, in base 1° gennaio 2023.
Popolazione in calo nei prossimi decenni
In linea con la tendenza di diminuzione della popolazione in atto dal 2014, lo scenario di previsione “mediano” contempla un ulteriore calo di 439mila individui tra il 2023 e il 2030 (da poco meno di 59 a 58,6 milioni), con un tasso di variazione medio annuo pari al -1,1 per mille. Nel medio termine, tra il 2030 e il 2050, la diminuzione della popolazione risulterebbe più accentuata: da 58,6 milioni a 54,8 milioni (tasso di variazione medio annuo pari al -3,3 per mille). Entro il 2080 la popolazione scenderebbe a 46,1 milioni, diminuendo di ulteriori 8,8 milioni rispetto al 2050 (-5,8 per mille in media annua), con un calo complessivo dall’anno base 2023 di 12,9 milioni di residenti. Nell’ipotesi più favorevole, dettata dallo scenario alto delle previsioni (limite superiore dell’intervallo di confidenza del 90%), la popolazione potrebbe subire una perdita di “soli” 5,9 milioni tra il 2023 e il 2080, di cui 2,0 milioni già entro il 2050. Nel caso meno propizio, descritto dallo scenario basso delle previsioni (limite inferiore dell’intervallo di confidenza del 90%), il calo di popolazione toccherebbe i 19,7 milioni di individui entro il 2080, 6,3 milioni dei quali già in vista del 2050. In buona sostanza, nell’ambito di ipotesi ragionevoli (quelle cioè potenzialmente prospettabili per il Paese, a meno di ipotizzare scenari da replacement level) la popolazione diminuirà, ma l’entità della riduzione può presentare evidenze numeriche molto diverse, che richiamano scenari non solo demografici ma anche sociali ed economici altrettanto diversi.
Il progressivo spopolamento investe tutto il territorio, ma le differenze tra Nord, Centro e Mezzogiorno fanno sì che tale processo raggiunga una dimensione significativa soprattutto in quest’ultima ripartizione. Secondo lo scenario mediano, nel breve termine si prospetta nel Nord un lieve ma significativo incremento di popolazione (+1,5 per mille annuo fino al 2030), al contrario del Centro (-0,9 per mille) e soprattutto del Mezzogiorno (-4,8 per mille) dove si preannuncia un calo di residenti. Nel periodo intermedio (2030-2050), e ancor più nel lungo termine (2050-2080), tale quadro evolutivo si espande, con un calo di popolazione generalizzato in tutte le ripartizioni geografiche, più intenso in quella meridionale. Guardando al lungo periodo, il Nord potrebbe ridursi di 2,6 milioni di abitanti entro il 2080 ma di appena 50mila se si guardasse al 2050. Ben diverso è il percorso evolutivo della popolazione nel Mezzogiorno, la quale nel 2080 potrebbe ridursi di 7,9 milioni di abitanti, 3,4 milioni dei quali già entro il 2050. L’evoluzione di nascite, decessi e migrazioni
Lo scenario mediano mostra che, fino al 2080, si avranno 21 milioni di nascite, 44,4 milioni di decessi, 18,2 milioni di immigrazioni dall’estero e 8 milioni di emigrazioni. Nello scenario più attendibile, quindi, la popolazione muta radicalmente, e non solo sotto il profilo quantitativo. In che misura accadrà tale trasformazione dipende dall’incertezza associata alle ipotesi sul futuro comportamento demografico, ma non fino al punto di portare in equilibrio, ad esempio, l’attuale distanza tra nascite e decessi. Anche negli scenari di natalità e mortalità più favorevoli, infatti, il numero di nascite non compenserà quello dei decessi. Nello scenario mediano, che contempla una crescita della fecondità da 1,20 figli per donna nel 2023 a 1,46 nel 2080, il massimo delle nascite risulta pari a 404mila unità nel 2038. In seguito, il previsto aumento dei livelli riproduttivi medi non porta un parallelo aumento delle nascite, perché contrastato da un calo progressivo delle donne in età feconda.
Si tenga presente che nel 2023 il numero delle donne in età 15-49 anni ammonta a 11,6 milioni e che, in base allo scenario mediano, tale contingente è destinato a contrarsi fino a 9,2 milioni nel 2050 e a 7,7 milioni nel 2080. Anche con la prospettiva favorevole di una fecondità in rialzo fino a 1,85 figli per donna nel 2080 (limite superiore dell’intervallo di confidenza al 90%), registrando un valore intermedio di 1,6 figli per donna nel 2050, il livello di nascite rimarrebbe inferiore alle 500mila unità annue. Simili perturbazioni strutturali interesseranno l’evoluzione della mortalità, per la quale si prevede annualmente un numero sostenuto di eventi di decesso, fino a un picco di 851mila nel 2059 secondo lo scenario mediano, anche in un contesto di buone aspettative sull’evoluzione della speranza di vita: 86,1 e 89,7 anni quella prevista alla nascita nel 2080, rispettivamente per uomini e donne, con un guadagno di 4,8 anni per i primi e di 4,4 anni per le seconde sul 2023.
Lo scenario mediano contempla movimenti migratori netti con l’estero positivi. A una prima fase molto intensa, fino al 2040, cui corrisponde una media di flussi netti superiore alle 200mila unità annue, potrebbe seguire una fase di stabilizzazione fino al 2080 con una media annuale di 165mila unità. I flussi migratori previsti non controbilancerebbero il segno negativo della dinamica naturale. Nondimeno, essi sono contraddistinti da incertezza, per la presenza di molteplici fattori (spinte migratorie nei Paesi di origine, attrattività del Paese sul piano economico-occupazionale, instabilità del quadro geopolitico internazionale). L’analisi dei risultati a lungo termine deve pertanto corredarsi di grande cautela.
I cambiamenti nella struttura della popolazione
Come già osservato, la struttura della popolazione residente è oggetto da anni di uno squilibrio tra nuove e vecchie generazioni dovuto alla combinazione, tipicamente italiana, dell’aumento della longevità e di una fecondità costantemente bassa. Al 1° gennaio 2023 il Paese presentava la seguente struttura per età: il 12,4% degli individui fino a 14 anni di età; il 63,6% tra 15 e 64 anni; il 24,0% dai 65 anni di età in su. L’età media, nel frattempo, si è portata a 46,4 anni e ciò colloca l’Italia, subito dopo il Giappone, tra i Paesi più coinvolti sul versante della transizione demografica, insieme ad altri Paesi dell’area mediterranea (Portogallo, Grecia, Spagna) e alla Germania. Le prospettive future comportano un’amplificazione di tale processo, governato per due terzi dall’attuale articolazione per età della popolazione, un effetto quindi intrinseco e non facilmente modificabile, e per solo un terzo dai cambiamenti ipotizzati circa l’evoluzione della fecondità, della mortalità e delle dinamiche migratorie.
Un numero crescente di persone inattive e con limitazioni dell’autonomia personale, a fronte di una progressiva riduzione delle persone in età attiva, tenderà dunque a spingere verso l’alto i livelli della spesa pubblica in ambito sanitario, previdenziale e assistenziale, con possibili ripercussioni negative sulle risorse da destinare alle famiglie con figli e sulla già scarsa mobilità sociale intergenerazionale che contraddistingue il nostro Paese.
Nel 2050 le persone di 65 anni e più potrebbero rappresentare il 34,5% del totale secondo lo scenario mediano. Una significativa crescita è attesa anche per la popolazione di 85 anni e più, quella all’interno della quale si concentrerà una più importante quota di individui fragili, dal 3,8% nel 2023 al 7,2% nel 2050. Comunque vadano le cose, quindi, l’impatto sulle politiche di protezione sociale sarà importante, dovendo porsi l’obiettivo di fronteggiare fabbisogni per una quota crescente di anziani. Sul versante previdenziale, ad esempio, le ipotesi sulle prospettive della speranza di vita a 65 anni contemplate nello scenario mediano presagiscono una crescita importante, a legislazione vigente, dell’età al pensionamento.
I giovani fino a 14 anni di età, sebbene nello scenario mediano si preveda una fecondità in parziale recupero, potrebbero rappresentare entro il 2050 l’11,2% del totale, registrando una moderata flessione in senso relativo ma non in assoluto.
Sul piano dei rapporti intergenerazionali si presenterà un rapporto squilibrato tra ultrasessantacinquenni e ragazzi in misura di oltre tre a uno. Questo scenario ha importanti ricadute su molti aspetti della vita dei più giovani, ridisegnando la struttura della rete parentale in cui essi si trovano inseriti: un numero di coetanei molto contenuto (fratelli, cugini), poche figure adulte (genitori, zii) e un numero più elevato rispetto al passato di parenti anziani (nonni, bisnonni). In altri termini, l’invecchiamento demografico determina cambiamenti profondi nei rapporti inter e intra generazionali, sia all’interno della famiglia sia, più in generale, nella società. A contribuire alla crescita assoluta e relativa della popolazione anziana concorrerà soprattutto il transito delle folte generazioni degli anni del baby boom (nati negli anni ’60 e prima metà dei ’70) dalle età adulte alle senili, con la concomitante riduzione della popolazione in età lavorativa. Nei prossimi trent’anni, infatti, la popolazione di 15-64 anni scenderebbe al 54,3% in base allo scenario mediano, con conseguenti ricadute sul mercato del lavoro e sul sistema di welfare.
