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Perché il mondo dovrebbe tassarsi per sostenere il benessere degli Usa? Tre strategie contro i dazi

La narrazione di Trump è economicamente sbagliata e moralmente inaccettabile: dobbiamo fargli capire che la perdita di fiducia non è “senza costo”
 |  Approfondimenti

Alla fine, come si dice in Toscana, tanto “tonò che piovve”. Trump ha fatto il grande gesto. E ha messo fine al processo di globalizzazione commerciale del Mondo che sembrava, pur con qualche piccola battuta di arresto e con molti mal di pancia da parte di molti economisti, inarrestabile. Già ci aveva pensato il Covid ad avvertire il mondo che le filiere globali, se erano certamente efficienti e commercialmente gestibili da parte di soggetti sempre meno “nazionali”, erano però fragili perché sottoposte alle “bizzarrie” della geopolitica.

Il mercato globale è vero era, o stava diventando a larghi passi, unico. Ma il mondo della politica non lo era e non stava facendo alcuna marcia di avvicinamento in tal senso. Anzi, gli organismi internazionali, sembravano “canne al vento” allorquando il gioco cominciava a farsi duro. Trump si è lasciato trascinare da questo “nuovo vento”, rispondendo alle giuste recriminazioni dei “perdenti” della globalizzazione, i famosi operai del Michingan, ma anche inventando una narrazione del sistema americano e della sua economia completamente distorta. Make america great again: e perché? Gli Usa sono, da tempo immemore, al top del reddito procapite del Mondo, attirano masse di immigrati da ogni dove per cercare lavoro e benessere, hanno registrato tassi di crescita significativi fra i paesi più sviluppati sia con Obama, che con Trump e infine con Biden, e hanno messo in evidenza tassi di innovazione nella nuova area della scienza e della tecnologia al di sopra di tutto il resto del mondo. Non a caso Obama ebbe a dire che le Università americane sono il petrolio degli Stati Uniti. Poi si è aggiunto anche il petrolio vero, tanto per non farsi mancare nulla. E allora perché questo senso di “dispetto” verso il mondo, quasi che gli Usa avessero da farsi risarcire per torti subiti e avessero, per questi torti, perso un qualche ruolo, qualche fetta di potere e qualche pezzo di ricchezza?

Ecco questo è il primo punto che andrebbe discusso e capito prima di parlare della “reazione” di Trump. Certo, nel mondo globale ci sono state anche cose fatte male che in qualche modo hanno messo in una qualche difficoltà gli Usa e più in generale il mondo occidentale che è quello che ha operato con più correttezza “nelle regole del libero mercato”. L’ingresso della Cina nel WTO, per esempio, senza alcuna condizione e con una moneta nazionale del tutto sotto controllo politico e non, come nel mondo occidentale, sotto il controllo del mercato è stato un errore. Ma gli Usa non possono per questo sentirsi “defraudati” e fare di questo sentimento il centro della propria politica. E allora penso che questa narrazione di Trump, partita da qualche limitata contraddizione nel processo di globalizzazione, sia un modo di imporre una precisa agenda politica del paese e di farsi paladino di una riscossa. E se gli Usa cercano riscatto nel mondo e cercano di non farsi fregare più, come ama dire ai quattro venti Trump, cosa dovrebbero fare i bambini schiavi che stavano e stanno ancora alla base di alcune filiere produttive del mondo sviluppato o cosa dovrebbero pensare quei fiumi di popolazioni costretti ad emigrare nei paesi più sviluppati, in primo luogo gli Usa, per trovare un minimo di benessere? O quei miliardi di abitanti del globo che consumano in un anno l’energia di un frigorifero di una famiglia americana? Insomma, al di là dei dazi, ci vorrebbe un’opinione pubblica mondiale che discute le premesse di questa politica e che mette a nudo un “vittimismo” che va molto di moda nella destra mondiale ma che davvero stona sulla bocca degli americani.

Detto questo veniamo ai dazi. L’economia americana da sempre registra uno sbilancio netto della propria Bilancia commerciale. Molto negativa nei beni industriali riequilibrata solo in parte dall’export di servizi. Tale sbilancio è stato, per così dire, “pagato” con l’emissione di valuta. Mentre per un paese normale uno sbilancio commerciale strutturale si riequilibra con movimenti nella valuta o nella economia per gli Usa un tale sbilancio è stato da sempre coperto con il “valore della carta dei dollari”. È un paradosso, messo in evidenza a suo tempo da Triffin, premio nobel dell’economia, che deriva dal fatto che il paese più ricco del mondo vive al di sopra del proprio livello facendosi finanziare dal resto del mondo. Cioè, carta contro beni. È la bellezza di avere come moneta nazionale una moneta di riserva internazionale. E vada, fino a che gli Usa spendevano tanto per la difesa globale a vantaggio di tanti. Ma se così non dovesse più essere, sempre parole di Trump, per quale motivo il mondo dovrebbe tassarsi per sostenere il benessere degli americani?  Insomma, anche su questo punto c’è qualche cosa che andrebbe discusso con maggiore profondità.

E veniamo ai dazi. Per l’Italia l’export vale il 24% della domanda totale e quello verso gli Usa vale intorno al 2,5%. Ma il rapporto con gli Usa vale sicuramente di più. Anche perché in molte esportazioni del resto di Europa verso gli Usa, e della Germania in testa, è facilmente rinvenibile una parte delle produzioni di componenti, prodotti di fase e servizi italiani. Questo significa che un 3% circa, e forse di più, della domanda autonoma del paese dipende dallo sbocco verso gli Usa. Con un dazio del 20% tale flusso potrebbe avere contraccolpi notevoli. Specie dopo un periodo in cui, anche negli Usa, l’inflazione ha colpito il consumatore finale e lo ha indispettito verso l’aumento generalizzato dei prezzi dei beni.

Un effetto diretto di mancanza di domanda, diciamo un 1,5% che si riflettesse direttamente sul sistema produttivo potrebbe portare ad una eguale diminuzione del Pil con una riduzione dell’occupazione di circa 35/40 mila occupati. Si tratta di un valore significativo, specialmente se si pensa che il trend di crescita del paese previsto non superava lo 0,5%.

Che fare allora? Penso che di fronte a questo cambiamento strutturale il compito dell’Italia e, più in generale dell’Europa e dei paesi occidentali, un tempo “amici” degli Usa, si componga di tre strategie. Ed uso non a caso la parola strategia (che guarda al medio lungo periodo) e non risposta (che parla di una reazione a breve).

La prima è quella di confutare la narrazione Trumpiana. Non può passare che il paese più ricco del mondo pianga e chieda un risarcimento. È economicamente sbagliato e moralmente inaccettabile. E le narrazioni in un mondo ipercomunicante sono cose “reali” che influiscono sulla politica, sull’economia e più in generale sulla società.

La seconda è quella di ridurre il più possibile l’impatto negativo a breve dello shock da domanda cercando di innalzare il più possibile le altre componenti autonome. Come prima idea avrei, seguendo gli indirizzi del Rapporto Draghi, il volume annuale degli investimenti e della ricerca scientifica e tecnologica. Tutte cose che hanno un effetto positivo sul breve ma anche e di più sul medio e lungo periodo.

La terza è quella di impostare un sistema di scambi internazionali con il resto del mondo meno Usa dipendente e più rivolto ai paesi in grado di sviluppare un sistema di scambio internazionale più regolato dal mercato che dalla geopolitica. Potrebbe essere l’occasione, con la Cina per esempio, di rivedere i rapporti commerciali in un’ottica di intensificazione ma all’interno di principi di reciproco rispetto. Insomma, la creazione di un’area del mondo dove vincono i migliori e non chi fa più furbizie, tipo aiuti di Stato mirati, tassazioni compiacenti e gestione politica delle valute.

E l’America? Per il momento lascerei stare le reazioni a caldo. Servono a poco con un paese che ha uno sbilancio commerciale immenso. E da cui importiamo per lo più beni e servizi non facilmente sostituibili. Certo farei capire all’interlocutore Trump che la perdita di fiducia non è “senza costo” e che da ora in poi qualsiasi azione che possa allentare il legame con gli Usa sarà senz’altro realizzata. E, per il resto, staremo a vedere. Con la speranza che l’Europa, nel suo complesso, batta un colpo. Ma con le strategie e non con le reazioni.

Mauro Grassi

Mauro Grassi, economista, ha lavorato come ricercatore capo nell’Istituto di ricerca per la programmazione economica della Toscana (Irpet), ha lavorato a Roma come dirigente caposegreteria del Sottosegretario ai Trasporti Erasmo D’Angelis (Ministero delle Infrastrutture) e quindi come direttore di Italiasicura (Presidenza del Consiglio) con i Governi Renzi e Gentiloni. Attualmente è consulente e direttore della Fondazione earth and water agenda.