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Da Oxfam l’intervista al presidente della Fondazione Gimbe

Ecco come l'autonomia differenziata rischia di distruggere del tutto il servizio sanitario nazionale

Cartabellotta: «Stiamo assistendo allo scivolamento di un Ssn istituito per tutelare un diritto costituzionale a 21 Sistemi sanitari regionali regolati dalle leggi del libero mercato»
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Il 2024 ha visto l’approvazione da parte del Parlamento del disegno di legge sull’autonomia regionale differenziata (nota anche come legge Calderoli), con cui il legislatore ha definito i principi generali per l’attribuzione alle Regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia rispetto a quanto previsto dallo statuto ordinario.

Le materie su cui può essere richiesta maggiore autonomia sono 23. Tra queste 14 richiedono la definizione dei livelli essenziali di prestazione (LEP) ovvero i criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito uniformemente su tutto il territorio nazionale.

I LEP rappresentano, in altre parole, la soglia costituzionale invalicabile per rendere effettivo il godimento da parte di tutti i cittadini dei diritti civili e sociali, tra cui l’istruzione, la sanità, l’ambiente e i trasporti. La concessione di maggiore autonomia sulle materie LEP è stata subordinata alla determinazione dei LEP stessi, che dovranno essere monitorati ed eventualmente aggiornati. La legge ha inoltre previsto che fossero stabilite le risorse finanziarie necessarie al finanziamento dei LEP, sulla base dei costi e dei fabbisogni standard, determinati e aggiornati con cadenza triennale. I

l trasferimento delle materie LEP avverrebbe solo dopo la loro determinazione e nei limiti delle risorse previste dalla legge di bilancio. Per le materie non-LEP il trasferimento sarebbe più immediato. Le funzioni trasferite verrebbero finanziate attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale, sul modello delle Regioni a statuto speciale.

La legge contiene inoltre principi idonei a garantire gli equilibri di bilancio e norme a tutela (finanziaria) delle Regioni che non facessero richiesta di autonomia differenziata.

«Il carattere di normativa procedurale della legge Calderoli non deve distogliere l’attenzione dagli impatti nefasti che la sua attuazione potrebbe determinare – spiega l’ong Oxfam – Il regionalismo competitivo cui la legge è improntata mette ulteriormente a repentaglio l’uguaglianza dei cittadini che già oggi scontano gravi divari nella disponibilità e nella fruizione di servizi pubblici nel Paese, marcatamente differenziati a seconda del territorio di residenza. In contrasto con l’idea di un regionalismo solidale, le scelte del Governo rischiano di trasferire, senza valide motivazioni, alle Regioni a statuto ordinario molteplici competenze esclusive su temi fondamentali delle politiche pubbliche e prefigurano un passaggio dal bilancio dello Stato a quello delle Regioni di una porzione consistente della spesa pubblica con un incentivo all’utilizzo poco efficiente e trasparente delle risorse».

Per approfondire i pericoli associati al regionalismo asimmetrico previsto dalla legge Calderoli, all’interno del rapporto Disuguitalia, Oxfam ha interpellato tre autorevoli esperti. Riportiamo di seguito, in via integrale, l’intervista a Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.

Intervista

Nel suo ultimo rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale, Gimbe ha denunciato il tradimento dei suoi principi fondanti: universalità, uguaglianza, equità. Quali sono oggi le parole chiave che descrivono un SSN, che non avete esitato a definire al capolinea?

«Oggi il nostro SSN è ben descritto da fenomeni che gravano quotidianamente sulla vita delle persone: interminabili tempi di attesa, pronto soccorso sovraffollati, impossibilità di trovare un medico o un pediatra di famiglia vicino casa, inaccettabili diseguaglianze regionali e locali, migrazione sanitaria, aumento della spesa privata che impoverisce le famiglie e porta sempre più persone a rinunciare alle cure. Stiamo assistendo allo scivolamento di un Servizio Sanitario Nazionale istituito per tutelare un diritto costituzionale a 21 Sistemi Sanitari Regionali regolati dalle leggi del libero mercato, con profonde disparità nell’accesso e nell’erogazione dei servizi che tradiscono i princìpi fondanti del SSN, universalità, uguaglianza, equità. Il definanziamento cronico, la carenza e la demotivazione del personale sanitario, oltre all’assenza di coraggiose riforme, stanno spingendo la sanità pubblica verso il punto di non ritorno».

Una delle ragioni principali del preoccupante stato di salute del nostro SSN è il suo definanziamento, operato dai governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni. Può descriverci il trend di sottofinanziamento, rispetto al fabbisogno sanitario che aumenta di anno in anno?

«Dal 2010 al 2019, il SSN ha subito un definanziamento cumulativo di oltre € 37 miliardi. Circa € 25 miliardi sono “spariti” nel periodo 2010-2015 in conseguenza di tagli effettuati da varie manovre finalizzate a risanare la finanza pubblica del Paese; oltre € 12 miliardi invece sono “evaporati” nel periodo 2015-2019 quando al SSN sono state assegnate meno risorse rispetto ai livelli programmati, scaricando sulla sanità il contributo alla finanza pubblica delle Regioni. Di conseguenza, nel decennio 2010-2019 il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) è aumentato di soli € 8,2 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,2. Negli anni della pandemia (2020-2022) il FSN è cresciuto di € 11,6 miliardi, con una media del 3,4% annuo, segnando formalmente la fine dei tagli. Tuttavia, questo netto rilancio del finanziamento pubblico è stato assorbito dai costi dell’emergenza pandemica, senza consentire un rafforzamento strutturale del SSN. Nel periodo post-pandemico (2023-2024) il FSN è cresciuto di € 8,6 miliardi, in larga parte assorbiti dall’inflazione e dell’aumento dei costi energetici. La Manovra 2025 incrementa il FSN di € 2,5 miliardi per il 2025, portando tuttavia “in dote” € 1,2 miliardi dalla Manovra 2024, per un totale di € 136,5 miliardi. Per gli anni successivi, eccezion fatta per il 2026 (+3%), gli incrementi percentuali del FSN sono risibili: +0,4% nel 2027, +0,6% nel 2028, +0,7% nel 2029 e +0,8% nel 2030. In termini di percentuale del PIL con la Manovra 2025 il FSN scende dal 6,12% del 2024 al 6,05% nel 2025 e 2026, per poi precipitare al minimo storico del 5,7% nel 2029. Questo disinvestimento non tiene conto dell’aumento dei bisogni di salute legati all’invecchiamento della popolazione, all’aumento delle cronicità e ai costi sempre più elevati di farmaci e tecnologie sanitarie. Di fatto, la sanità pubblica viene continuamente definanziata, compromettendo i principi costituzionali su cui si fonda il SSN».

L’accesso a servizi sociosanitari di qualità già oggi è caratterizzato da profonde disuguaglianze territoriali. É sempre più marcata una vera e propria frattura, che nel vostro rapporto avete definito strutturale, tra Nord e Sud, dove spesso ai residenti non sono garantiti nemmeno i livelli essenziali di assistenza. Può tracciare una fotografia della situazione attuale e il suo impatto sull’esigibilitá del diritto costituzionale alla tutela della salute?

«Le disuguaglianze territoriali nel nostro Paese sono drammatiche. Nel 2022, solo 13 Regioni hanno rispettato gli standard minimi, con un ulteriore aumento del divario Nord-Sud: nel Meridione, soltanto Puglia e Basilicata risultano adempienti. Inoltre, quasi metà delle Regioni ha registrato performance inferiori rispetto al 2021. L’area della prevenzione è la più critica, con 7 Regioni inadempienti, seguita dall’area distrettuale (5 Regioni) e da quella ospedaliera (1 Regione). Ma le diseguaglianze non sono solo regionali, in particolare tra il Nord e il Sud del Paese, ma emergono anche tra centri urbani ed aree rurali, tra differenti fasce socio-economiche della popolazione e livelli di istruzione, tra uomini e donne. L’acceso ai servizi sanitari non è più garantito in base ai bisogni di salute, ma è fortemente influenzato dalla capacità di offerta regionale e locale e da una domanda non sempre appropriata dei cittadini. Inoltre, i dati sulla mobilità sanitaria confermano questo gap ormai incolmabile, documentando flussi economici che scorrono prevalentemente da Sud a Nord. In particolare nel 2021, Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto hanno generato complessivamente quasi la metà dei crediti della mobilità e il 93,3% del saldo di mobilità attiva, mentre le Regioni con saldo negativo maggiore di € 100 milioni appartengono tutte al Centro-Sud».

In questo quadro di debolezza del SSN e di marcate disuguaglianze, si inserisce la legge sull’autonomia differenziata, che rischia di legittimare da un punto di vista normativo la “frattura strutturale” tra Nord e Sud. Quali sono in concreto i rischi che vede per la sostenibilità del SSN e per il rispetto del principio di uguaglianza nell’accesso a servizi di qualità?

«Al di là di illusori proclami, nel contesto di un SSN profondamente indebolito e segnato da una “frattura strutturale” Nord-Sud, l’autonomia differenziata non solo affosserà definitivamente la sanità del Mezzogiorno, ma darà il colpo di grazia al SSN. Con un effetto paradosso per le Regioni del Nord che, a causa dell’ulteriore indebolimento di quelle del Sud, beneficeranno sì di una maggiore mobilità attiva, ma nell’impossibilità di aumentare oltre un certo limite la produzione di prestazioni sanitarie non saranno più in grado di soddisfare i bisogni di salute dei propri residenti. Proprio per tali ragioni, in audizione in Commissione Affari Costituzionali della Camera prima e del Senato poi, la Fondazione GIMBE aveva chiesto di espungere la materia “tutela della salute” da quelle su cui le Regioni possono chiedere maggiori autonomie. Proprio perché non è accettabile legittimare normativamente la “frattura strutturale” Nord-Sud e compromettere l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute».

La nuova normativa prevede che l’autonomia delle Regioni sia comunque subordinata ai Lep, i Livelli Essenziali di Prestazione, che non sono però stati ancora definiti. Anche alla luce dell’esperienza dei Lea, la definizione di standard minimi e il monitoraggio della loro applicazione possono garantire che siano esigibili su tutti i territori e quindi costituire l’argine alle disuguaglianze territoriali che l’autonomia differenziata rischia di portare con sé?

«La definizione dei LEP è fondamentale, ma da sola non basta. L’esperienza dei LEA ci insegna che la loro applicazione varia enormemente tra le Regioni e che il monitoraggio spesso non si traduce in interventi correttivi concreti. Per garantire che i LEP siano effettivamente esigibili su tutto il territorio nazionale, servono due condizioni imprescindibili: il loro finanziamento e un potenziamento delle capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni. Senza questi presupposti, i LEP rischiano di restare un’ulteriore promessa disattesa».

La Fondazione GIMBE ha ribadito che, se da una parte tutte le forze politiche, anche di governo, affermano la volontà di difendere e rafforzare il SSN, manca una chiara direzione strategica e un esplicito programma politico per il suo reale potenziamento. Quali sono le vostre proposte per il rilancio del SSN?

«La Fondazione GIMBE ha da tempo presentato il suo Piano di Rilancio del SSN: un programma chiaro, articolato in 13 punti, che prescrive la “terapia” necessaria a salvare il nostro SSN, oggi gravemente “malato”. Un piano che ha come bussola l’articolo 32 della Costituzione e i princìpi fondanti del SSN e che mette nero su bianco le azioni indispensabili per potenziarlo con risorse adeguate, riforme coraggiose e una radicale e moderna riorganizzazione. Tuttavia, l’attuazione di questo piano non può prescindere da un nuovo patto politico e sociale, che superi divisioni ideologiche e avvicendamenti dei Governi, riconoscendo nel SSN un pilastro della nostra democrazia, uno strumento di coesione sociale e un motore per lo sviluppo economico del Paese. Un patto che chiede ai cittadini di diventare utenti informati e responsabili, consapevoli del valore del SSN, e a tutti gli attori della sanità di rinunciare ai privilegi acquisiti per salvaguardare il bene comune. In assenza di un deciso cambio di rotta, sempre più medici e infermieri abbandoneranno la sanità pubblica, lasciando scoperti reparti ospedalieri e assistiti sul territorio; l’accesso alle cure diventerà un privilegio per pochi; sempre più persone saranno costrette a rinunciare a trattamenti o visite per motivi economici. Nel 2023, già 4,5 milioni di Italiani hanno rinunciato alle cure: di questi, 2,5 milioni lo hanno fatto perché non potevano permettersele. È un paradosso crudele: proprio chi avrebbe più bisogno di un SSN universale e equo rischia di essere abbandonato. Tutelare la salute della popolazione è un dovere costituzionale, ma anche un imperativo morale ed economico. Il SSN non è un lusso né un peso: è un investimento sulle persone e sul futuro del Paese. Per questo, servono risorse, riforme e visione».

Redazione Greenreport

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