
Siccità: perché costruire nuovi invasi non può essere la soluzione

La grave crisi idrica in corso è senza dubbio da inquadrare nella epocale crisi climatica ed ecologica in atto e come tale va approcciata in modo strutturale, affrontando le cause e non correndo dietro ai sintomi. Questa crisi ha una fondamentale causa: aver perseguito per decenni uno sviluppo economico che prescinde dai vincoli ecosistemici. Nella UE ciò ha avuto tragiche conseguenze:
- più dell’80% degli habitat è in cattivo stato di conservazione
- dal 1970 le aree umide si sono contratte del 50%
- negli ultimi 10 anni il 71% dei pesci e il 60% degli anfibi ha mostrato un declino delle popolazioni
- un terzo tra api e farfalle sono in declino e un decimo sono sull’orlo dell’estinzione.
Per tali ragioni riteniamo che sia inaccettabile —perché insostenibile e quindi causa di ulteriore aggravio delle future crisi e dai benefici non duraturi— ogni risposta alla crisi idrica che si basi sull’ulteriore depredazione delle risorse naturali e su ogni ulteriore aggressione alla biodiversità: è una scelta letteralmente senza futuro. Siamo pertanto fortemente contrari alle attuali sistematiche deroghe al deflusso ecologico e riteniamo fallimentare e dannosa ogni strategia incardinata sulla costruzione di nuovi invasi lungo i corsi d’acqua.
Per un approccio razionale al problema è necessario mettere in discussione come viene utilizzata questa risorsa limitata che è l’acqua. L’agricoltura è il maggiore utilizzatore mondiale: secondo stime ANBI in Italia ad essa sono imputabili 14,5 miliardi di mc di acqua l’anno, pari al 54% dei consumi totali. In quest’ambito, a nostro avviso, è una distorsione che si continui a parlare dei miliardi di euro di danni causati all’agricoltura dalla siccità, quando il fulcro della questione dovrebbe essere la produzione di cibo, che prima di tutto deve essere sostenibile. La sostenibilità è un prerequisito essenziale affinché i livelli produttivi permangano nel tempo, a fronte non solo delle crisi idriche, ma delle numerose altre crisi sistemiche che stanno rendendo sempre più difficile e costoso l’accesso ai fattori su cui si è basata la produttività agricola dal secondo dopoguerra ad oggi. È quindi prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare, in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti all’interno del nuovissimo Piano strategico nazionale della PAC (PSP) che, lo ricordiamo, è stato bocciato dalla Commissione Europea in particolare proprio per lo scarso coraggio in tema di sostenibilità ambientale.
Per incrementare la sostenibilità della produzione agricola è fondamentale poi ridefinire l’organizzazione dei paesaggi agrari e delle pratiche agronomiche. L’agricoltura è la maggiore causa singola di perdita di biodiversità. Nella UE il 70% dei suoli sono degradati. Secondo ISPRA il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione, che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua; infatti, secondo dati del 2008, in Italia “l’80% dei suoli ha un tenore di carbonio organico inferiore al 2%, di cui una grossa percentuale ha valori di CO minore dell’1%”, questo indica suoli disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva. Va generalizzata quindi l’adozione di misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei territori agrari e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche e prevenire il degrado dei suoli.
Il secondo livello di ragionamento è quello relativo all’uso più efficiente, e in quest’ambito prioritaria è la riduzione delle perdite di rete. Nel 2018 le perdite nelle reti idriche potabili erano pari al 42% in aumento di 10 punti rispetto al decennio precedente, a causa della crescente obsolescenza. Data la situazione, non possiamo quindi non evidenziare come il PNRR preveda di investire entro il 2026 solo 900 milioni di €, quando l’OCSE nel 2013 stimava che dovremmo spendere 2,2 miliardi €/anno per i prossimi 30 anni per far fronte alle necessità del Paese e per metterci in pari con il livello di investimenti per il mantenimento delle reti del resto d’Europa.
Solo avendo a riferimento questa primaria forte riduzione dei fabbisogni ha senso interrogarsi sulle strategie più opportune per assicurarci la necessaria disponibilità idrica durante la sempre più lunga stagione secca. Nel dibattito pubblico attualmente sembra che esista solo un’unica possibilità: costruire nuovi invasi artificiali. Come CIRF siamo totalmente contrari a nuove dighe lungo i corsi d’acqua, mentre siamo possibilisti su piccoli invasi collinari volti alla raccolta dei deflussi superficiali, per quanto pure questi non siano esenti da criticità. Non si possono proporre nuove dighe senza considerare il loro fortissimo impatto sui sistemi idrografici; attualmente gli sbarramenti sono:
- il fattore di pressione più significativo in almeno il 30% dei corpi idrici europei;
- causa del mancato raggiungimento del buono stato ecologico in almeno il 20% dei corpi idrici europei.
- gli invasi perdono molta acqua per evapotraspirazione, come media italiana, ad essere molto cautelativi, non meno di 10.000 mc/anno per ogni ettaro di superficie dello specchio d’acqua, ma questa quantità è sicuramente maggiore nel Mezzogiorno e per gli invasi di minori dimensioni (ad esempio quelli collinari) e non farà che aumentare al crescere delle temperature medie;
- soprattutto negli invasi più piccoli l’acqua può raggiungere temperature elevate, con formazioni di condizioni anossiche, fioriture algali e sviluppo di cianotossine (uno dei problemi emergenti di maggior rilievo a livello mondiale) tutti fattori che compromettono il successivo utilizzo di queste acque.
Nell’immediato, non possiamo controllare l’andamento delle precipitazioni e delle temperature (per quanto esso sia stato condizionato nei decenni dall’attività antropica) ma possiamo certamente agire (con prospettive di risposta a breve termine) per far sì che le sempre minori e più concentrate precipitazioni permangano più a lungo sul territorio invece di scorrere velocemente a valle fino al mare.
Per ottenere ciò bisogna attuare una grande opera di riqualificazione che comprenda: la riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua, decanalizzandoli e recuperando le forti incisioni subite nei decenni scorsi, riconnettendo le pianure alluvionali, ripristinando fitte formazioni boscate riparie; la ricostituzione della rete di siepi interpoderali e del reticolo idraulico minuto; l’adozione generalizzata di pratiche colturali che implementino il contenuto di sostanza organica nei suoli e la loro capacità di assorbire le piogge e trattenere umidità e nutrienti (un incremento dell’1% nel contenuto di sostanza organica può garantire fino a 300 m3/ha di accumulo idrico nel suolo, disponibile per la vegetazione); la de-impermeabilizzazione delle aree urbane. Queste sono misure previste dalle strategie per la “biodiversità 2030” e “From farm to fork” nell’ambito del New Green Deal della UE. E riprese dalla recente proposta normativa (il “Pacchetto Natura”) presentata il 22 giugno scorso dalla Commissione Europea. Le proposte attualmente in discussione in Italia vanno esattamente nella direzione opposta.
Sempre più dovremmo imparare a convivere con i due estremi di lunghe siccità e precipitazioni intense, con il loro portato di alluvioni, a cui solo un territorio e un reticolo idrografico maggiormente naturali possono far fronte contemporaneamente. Chiediamo pertanto al Governo di fermare il piano invasi e di mettere in campo una strategia di adattamento davvero integrata, incardinata su un esteso piano di riqualificazione e di incremento della biodiversità, come giustamente suggerito dalle recenti strategie e proposte normative europee.
di Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale CIRF
