
Cambiamento climatico e ecosistemi marini: decenni per distruggerli, millenni per recuperare (VIDEO)

Un’indagine sullo strato di una decina di metri di un fondale dell’Oceano Pacifico potrebbe rivoluzionare le nostre conoscenze e convinzioni sulla resilienza dell’oceano di fronte al rapido cambiamento climatico in atto. Infatti lo studio “Response of seafloor ecosystems to abrupt global climate change” pubblicato oggi su PNAS da un team di ricercatori californiani dimostra che per gli ecosistemi marini ci possono volere migliaia di anni – e non centinaia che si crede e si spera - per riprendersi da sconvolgimenti legati al clima. Gli autori dello studio hanno analizzato migliaia di fossili di invertebrati per dimostrare che il recupero dell'ecosistema dal cambiamento climatico e dalla deossigenazione l'acqua di mare potrebbe avvenire su una scala millenaria.
Il team di ricercatori, guidata da Sarah Moffitt, PhD, della Università della California.Davis, ha analizzato più di 5.400 invertebrati fossili, dai ricci di mare ai bivalvi, trovati all'interno di un nucleo di sedimenti al largo di Santa Barbara, in California e uno degli scienziati, Peter Roopnarine, della California Academy of Sciences, spiega: «In questo studio, abbiamo usato il passato per prevedere il futuro. Tracciare i cambiamenti nella biodiversità marina durante gli episodi storici di riscaldamento e raffreddamento ci dice quello che potrebbe accadere nei prossimi anni. Noi non vogliamo sentirci dire che gli ecosistemi hanno bisogno di migliaia di anni per recuperare da interruzioni, ma è fondamentale che comprendiamo la necessità globale di combattere gli impatti climatici moderni».
La carota di sedimenti estratta dal fondale dell’Oceano Pacifico è in realtà come è una fetta di vita dell'oceano così come esisteva tra i 3.400 e 16.100 anni fa e fornisce un’istantanea del prima e dopo l’ultimo evento di deglaciazione, un periodo di brusco riscaldamento climatico brusco, di scioglimento delle calotte polari e di espansione di zone oceaniche con scarso ossigeno. I nuovi dati mostrano quanto tempo c’è voluto prima che gli ecosistemi iniziassero a riprendersi dopo quei drammatici cambiamenti climatici.
Alla California Academy of Sciences sottolineano che «I precedenti studi dei sedimenti marini che ricostruiscono la storia climatica della Terra si basano molto su organismi semplici, unicellulari chiamati Foraminiferi. Lo studio di questa settimana esplora la vita multicellulare - sotto forma di invertebrati - nel perseguimento di un quadro più completo di resilienza degli ecosistemi marini nei passati periodi di cambiamenti climatici».
Roopnarine spiega ancora: «La complessità e la diversità di una comunità dipende da quanta energia è disponibile. Per capire veramente la salute di un ecosistema e delle reti trofiche al suo interno, dobbiamo guardare il semplice e piccolo, nonché il complesso. In questo caso, gli invertebrati marini ci danno una migliore comprensione dello stato di salute degli ecosistemi nel loro complesso».
Lo studio ha rivelato una storia antica di ecosistemi del fondale marino abbondanti, diversi e ben ossigenati, seguita da un periodo di perdita di ossigeno e di riscaldamento che sembra aver innescato una rapida perdita di biodiversità. Secondo la ricerca, «I fossili di invertebrati sono quasi inesistenti nei periodi di livelli di ossigeno più bassi rispetto alla media».
La Moffitt ha evidenziato l'importanza di utilizzare un carotaggio dio 30 piedi estratto dal fondo marino per avere una sequenza di dati ininterrotta: «Per periodi di meno di 100 anni, i livelli di ossigeno oceanico sono diminuiti tra gli 0,5 e gli 1,5 ml/L. I campioni di sedimenti durante questi periodi mostrano che le fluttuazioni relativamente minori di ossigeno possono portare a cambiamenti radicali per le comunità del fondo marino».
I risultati dello studio suggeriscono la “nuova normalità” del rapido cambiamento climatico può provocare effetti simili a livello di ecosistema con periodi di recupero su scala millenaria. Mentre il nostro pianeta si riscalda, gli scienziati si aspettano di vedere “zone morte” prive di ossigeno molto più estese in tutti gli oceani del mondo.
Roopnarine conclude ricordando che si tratta di un processo già in atto: «Per la gente in Oregon e lungo il Golfo del Messico gli effetti devastanti delle condizioni oceaniche a basso ossigeno sugli ecosistemi e sulle economie locali sono fin troppo familiari. Dobbiamo indagare su come le comunità del fondo dell'oceano rispondono agli sconvolgimenti e su come adattarsi alla “nuova normalità” del rapido cambiamento climatico. Noi esseri umani dobbiamo pensare con attenzione al pianeta che lasceremo alle generazioni future».
