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La storia delle bioplastiche che non lo sono smascherata dalla Michigan State University

 |  Green economy

La biodegradazione della plastica si inserisce in un percorso di gestione dei rifiuti sostenibile, e prima ancora realmente percorribile? Come accade di fronte a ogni domanda complessa, la risposta non può che passare per un dipende. I tempi di degradazione della plastica dipendono innanzitutto i modo determinante dal tipo di materiale di cui si sta parlando (i tipi di plastiche, infatti, sono molti); in linea generale, potremmo dire che oscillano fino a toccare i mille anni: un tempo notevole, e un problema nella gestione di ciò che diventa scarto.

Una delle strade scelte per cercare di ridurre questo tempo sta nella creazione delle cosiddette plastiche biodegradabili. Anche in questo caso, la definizione non può essere univoca: come minimo è necessario distinguere tra biopolimeri e polimeri addittivati – che sono una cosa diversa, ma spesso vengono spacciati per bioplastica. Nel primo caso si parla delle bioplastiche, ossia quei polimeri derivanti da materie prime vegetali, e con tempi di decomposizione tramite compostaggio incomparabilmente minori con quelli delle plastiche tradizionali. Nel secondo caso, invece, i polimeri in questione sono proprio quelli tradizionali, ai quali però vengono aggiunti addittivi chimici per abbatterne i tempi “naturali” di degradazione.

La domanda è, funzionano? Secondo un nuovo studio della Michigan State University, la risposta stavolta è semplice: no. «Non c'era alcuna differenza tra le plastiche con gli additivi che abbiamo testato e quelle senza addittivi - ha dichiarato Rafael Aure, co-autore dello studio - La pretesa è che, grazie alla presenza di additivi, le plastiche degradano a un livello in cui i microorganismi possano utilizzare il materiale decomposto come cibo. Questo semplicemente non è accaduto».

Al termine di analisi durate 3 anni, i risultati appena pubblicati sulla rivista Environmental Science and Technology sono giunti a riassumere robuste osservazione sui processi di biodegradazione dei polimeri addittivati – non si parla dunque di "veri" biopolimeri –, sotto tre diversi scenari: biodegradazione aerobica (come nel caso del compostaggio), anaerobica (quella che avviene negli appositi digestori, o nelle discariche), e nel caso in cui la plastica semplicemente fosse seppellita sottoterra.

In tutti e tre i casi, la conclusione rimane la stessa: se davvero si vuole affrontare la gestione dei rifiuti plastici, è bene non dire bugie. Dare le giuste informazioni ai cittadini che, tramite la raccolta differenziata, inizieranno poi quel percorso che condurrà la plastica in questione a riciclo, termovalorizzazione o – ahinoi – smaltimento in discarica, è l’altra logica conseguenza.

Si pensi ad esempio alle vere bioplastiche, che sono e rimangono un'opportunità, e a cosa accade – come spesso accade – nel caso in cui queste vengano inserite per errore nel cassonetto insieme alle plastiche tradizionali (e non nell’umido): crescenti stock di materiali altrimenti recuperabili vengono persi. Il primo e fondamentale elemento per una buona economia circolare è sempre quello: partire da una corretta informazione.

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.