
Draghi rilancia la difesa comune Ue. E sull’energia: «Disaccoppiare prezzo rinnovabili da fossili»

Parla di costo dell’energia, della necessità di accelerare sulla difesa comune europea, della sicurezza dell’Unione messa in dubbio dalle mosse di Trump e di Putin. Mario Draghi torna in Parlamento. È la prima volta da quando, era luglio 2022, aveva annunciato le dimissioni da presidente del Consiglio. L’ex premier arriva a Palazzo Madama per un intervento sul futuro della competitività europea di fronte alle commissioni Unione europea, Bilancio e Industria e agricoltura del Senato insieme a Bilancio, Attività produttive e Politiche dell’Unione europea della Camera. Obiettivo dell’intervento, illustrare il piano “The Future of European Competitiveness”, presentato a Bruxelles lo scorso settembre. Ma Draghi va molto al di là dei confini riguardanti la competitività europea. Perché adesso, sottolinea, si è aggiunta anche un’altra categoria con cui l’Ue deve fare i conti, e che risponde al nome di «sicurezza»: «La nostra prosperità già minacciata dalla bassa crescita per molti anni, si basava su un ordine delle relazioni internazionali e commerciali oggi sconvolto dalle politiche protezionistiche del nostro maggiore partner», dice citando i dazi annunciati Oltreoceano, che avranno «un forte impatto sulle imprese italiane europee». E poi: «La nostra sicurezza è oggi messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato rispetto alla Russia che con l’invasione dell’Ucraina ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione europea. L’Europa è oggi più sola nei fori internazionali come è accaduto di recente alle Nazioni Unite e si chiede chi difenderà i suoi confini in caso di aggressione esterna e con quali mezzi».
La difesa comune dell’Europa, sottolinea, è «un passaggio obbligato per utilizzare al meglio le tecnologie che dovranno garantire la nostra sicurezza». E se è vero che «gli angusti spazi di bilancio non permetteranno ad alcuni Paesi significative espansioni del deficit» è evidente che «il ricorso al debito comune è l’unica strada». Secondo Draghi, infatti, interventi nazionali a scapito della spesa sociale e sanitaria sarebbero «la negazione» dell’identità europea «che vogliamo proteggere difendendoci dalla minaccia dell’autocrazia». Dunque debito comune e difesa comune, che richiederà anche la definizione di una «catena di comando di livello superiore che coordini eserciti eterogenei per lingua, metodi, armamenti e che sia in grado di distaccarsi dalle priorità nazionali operando come sistema della difesa continentale». E se investimenti per nuovi armamenti stanno nelle cose, deve essere anche chiaro primo, con quali obiettivi e, secondo, anche in questo caso bisogna fare attenzione agli interessi europei, non di altri.
Ecco il lungo passaggio in cui Draghi sprona l’Europa (e l’Italia) a non fare il gioco degli Usa anche nella corsa al riarmo: «Dal punto di vista industriale ed organizzativo questo vuol dire favorire le sinergie industriali europee concentrando gli sviluppi su piattaforme militari comuni (aerei, navi, mezzi terresti, satelliti) che consentano l’interoperabilità e riducano la dispersione e le attuali sovrapposizioni nelle produzioni degli Stati membri. Nelle ultime settimane, la Commissione ha dato il via a un ingente piano di investimenti nella difesa dell’Europa. Mentre si pianificano nuove risorse, occorrerebbe che l’attuale procurement europeo per la difesa – pari a circa 110 miliardi di euro nel 2023 – fosse concentrato su poche piattaforme evolute invece che su numerose piattaforme nazionali, nessuna delle quali veramente competitiva perché essenzialmente dedicata ai mercati domestici. L’effetto del frazionamento è deleterio: a fronte di investimenti complessivi comunque elevati, i Paesi europei alla fine acquistano gran parte delle piattaforme militari dagli Stati Uniti. Tra il 2020 e il 2024, gli Stati Uniti hanno fornito il 65% dell’importazione di sistemi di difesa degli Stati europei aderenti alla Nato. Nello stesso periodo l’Italia ha importato circa il 30% dei suoi apparati di difesa dagli Stati Uniti. Se l’Europa decidesse di creare la sua difesa e di aumentare i propri investimenti superando l’attuale frazionamento, invece di ricorrere in maniera così massiccia alle importazioni, essa ne avrebbe certamente un maggior ritorno industriale, nonché un rapporto più equilibrato con l’alleato atlantico anche sul fronte economico. Questa grande trasformazione è in realtà necessaria non solo per le complessità geopolitiche cui stiamo assistendo, ma anche per via della rapidissima evoluzione della tecnologia che ha stravolto il concetto di difesa e di guerra».
Un concetto, quello dell’autolesionismo europeo che va a vantaggio di altri, che Draghi evoca anche per quel che riguarda il tema risparmio e l’argomento energia. «Il dato che meglio riassume la persistente debolezza dell’economia del nostro Continente è la quantità di risparmio che ogni anno fuoriesce dall’Unione Europea: 500 miliardi di euro nel solo 2024. Risparmi a cui l’economia Europea non riesce a offrire un tasso di rendimento adeguato». Il rapporto che ha presentato a Bruxelles analizza estesamente le cause strutturali di questa inadeguatezza, ricorda, ma oggi si sofferma «su tre aspetti che sono diventati ancora più urgenti nei sei mesi trascorsi dalla pubblicazione del rapporto: si tratta del costo dell’energia, della regolamentazione e della politica dell’Innovazione».
Draghi cita l’aumento del prezzo del gas, ricorda che nei Paesi europei i prezzi dell’elettricità all’ingrosso sono due o tre volte più alti degli Stati Uniti, e poi sottolinea che «questo problema è ancora più marcato in Italia, dove i prezzi e l’energia all’ingrosso nel 2024 sono stati in media superiori dell’87% rispetto a quelli francesi, del 70% rispetto agli spagnoli, del 38% rispetto a quelli tedeschi. Anche i prezzi del gas all’ingrosso in Italia nel ‘24 sono stati mediamente più alti rispetto agli altri mercati europei: nei prezzi finali ai consumatori incide anche la tassazione, in Italia tra le più elevate in Europa». Nel primo semestre del ’24, continua, l’Italia risultava il secondo Paese europeo «con il più alto livello di imposizione e prelievi non recuperabili per i consumatori elettrici non domestici»: «Costi dell’energia così alti pongono le aziende europee e italiane in particolare, in perenne svantaggio nei confronti dei concorrenti stranieri. È a rischio non solo la sopravvivenza di alcuni settori tradizionali ma anche lo sviluppo di nuove tecnologie ad elevata crescita, si pensi ad esempio all’elevato consumo necessario per i data center. Una seria politica di rilancio della competitività europea deve porsi come primo obiettivo la riduzione delle bollette per imprese e famiglie».
La domanda è: come? E Draghi inizia con il sottolineare che è necessario pretendere «una maggiore trasparenza dei mercati», perché «gran parte delle transazioni finanziarie legate al gas è concentrata in poche società finanziarie senza che vi siano forme di vigilanza su di esse paragonabili neanche lontanamente a quelle che sono che esistono su altri intermediari finanziari» e perché «anche per quanto riguarda il gas è necessario una maggiore trasparenza sui prezzi d’acquisto alla fonte». E se «il beneficio dei più bassi costi operativi delle rinnovabili raggiungerà pienamente gli utenti finali solo tra molti anni», una cosa è certa: «I cittadini ci stanno dicendo che sono stanchi di aspettare, la stessa decarbonizzazione è a rischio».
Il problema, sottolinea Draghi, è che i prezzi all’ingrosso dell’elettricità dipendono dal mix di generazione ma anche da come si forma il prezzo in Europa. Eccolo il vero nodo da sciogliere: «Nel 2022, pur rappresentando il gas soltanto il 20% del mix di generazione elettrica, ha determinato il prezzo complessivo dell’elettricità per più del 60% del tempo e in Italia per circa il 90% del tempo. Occorre certamente accelerare lo sviluppo di generazione pulita e investire estesamente nella flessibilità e nelle reti, ma occorre anche disaccoppiare il prezzo dell’energia prodotta dalle rinnovabili e dal nucleare da quello dell’energia di fonte fossile, e non possiamo però aspettare unicamente le riforme a livello europeo».
Tra le priorità che deve affrontare l’Italia segnala la necessità di «accelerare lo sviluppo di generazione pulita e investire estesamente nella flessibilità e nelle reti». Ma oltre a questo, in Italia ci sono tanti impianti rinnovabili in attesa di autorizzazione o di contrattualizzazione e dunque «è indispensabile semplificare e accelerare gli iter autorizzativi, e avviare rapidamente gli strumenti di sviluppo»: «Questo abiliterebbe nuova produzione a costi più bassi di quella a gas, che rappresenta ancora in Italia circa il 50% del mix elettrico (a fronte di meno del 15% in Spagna e di meno del 10% in Francia). Inoltre, senza aspettare una riforma europea, possiamo slegare la remunerazione rinnovabile da quella a gas, sia sui nuovi impianti che su quelli esistenti, adottando più diffusamente i Contratti per differenza (Cfd) e incoraggiando e promuovendo i Power purchasing agreement (Ppa)».
