Non solo Eu Ets, i mercati per le emissioni dei gas serra stanno avanzando in tutto il mondo
A quasi vent’anni dalla sua prima introduzione, e molte trasformazioni dopo, il mercato europeo delle emissioni di gas serra (Eu Ets) è diventato un esempio da seguire nel mondo.
Quello Ue è stato il primo mercato di questo tipo, il cui funzionamento in teoria è piuttosto semplice. Si impone un tetto massimo (cap) alle emissioni dei settori economici regolati e, al contempo, consente alle varie attività coinvolte di scambiarsi (trade) i “permessi di emissione”.
Si tratta di una dinamica che nasce per favorire l’adozione di tecnologie più efficienti da parte delle imprese, tenendo insieme decarbonizzazione e competitività economica. A che punto siamo?
Ne abbiamo parlato con Simone Borghesi, ordinario all’Università di Siena e direttore di FSR Climate – l’area di ricerca sul clima della Florence school of regulation – all’interno dell’Istituto universitario europeo (Eui) di Firenze, oltre che presidente dell’Associazione europea degli economisti ambientali e della risorse (Eaere).
Abbiamo raggiunto Borghesi proprio mentre l’Eui ospita la conferenza internazionale State-of-play in international carbon markets 2024, un momento unico per valutare i progressi dei mercati delle emissioni non solo in Europa ma a livello globale.
Intervista
Partiamo dal mercato europeo: quante emissioni di gas serra copre, e qual è l’andamento nel prezzo della CO2?
«A oggi l’Eu Ets copre circa il 40% delle emissioni climalteranti europee, ma si tratta di una percentuale destinata a crescere dato che da quest’anno anche il comparto marittimo è stato incluso nell’Eu Ets, mentre l’edilizia e il settore dei trasporti entreranno a far parte del cosiddetto Ets2 dal 2027.
Per quanto riguarda il prezzo della CO2, dopo aver raggiunto picchi per circa 100€ a tonnellata adesso si è stabilizzato attorno ai 70€, un valore in linea con quello auspicato dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz entro il 2030, ovvero tra gli 80 e i 120€/ton».
Dunque non siamo ancora arrivati al prezzo della CO2 ritenuto più efficiente.
«Considerando che prima del 2017 il prezzo era sotto i 5€/ton, già oggi siamo su valori molto più coerenti col necessario processo di decarbonizzazione. Mi aspetto e auguro che il prezzo continui a salire, ma spero lo faccia progressivamente; una crescita troppo rapida rischia di mettere a repentaglio lo strumento, creando problemi di accettabilità sociale come quelli che già vediamo animare alcune proteste contro il Green deal, rischiando di comportare passi indietro anziché in avanti».
Oltre a quello europeo, quali sono gli altri principali mercati delle emissioni operanti nel mondo?
«I principali sono in Cina – che è nato nel 2021 dopo 7 progetti pilota condotti negli anni scorsi, e quando sarà pienamente operativo diventerà il doppio per dimensione rispetto a quello Ue –, in California, Quebec, Nuova Zelanda, Svizzera e Regno Unito. Ad oggi un mercato delle emissioni è presente in 36 giurisdizioni nel mondo ed è in costruzione in altre 14».
Si tratta di sistemi molto diversi tra loro?
«Le differenze stanno in alcuni aspetti tecnici ma rilevanti. Ad esempio, il mercato cinese si differenzia da quello Ue perché non ha un cap assoluto ma relativo, cioè punta a ridurre le emissioni di CO2 rispetto al Pil e non le emissioni totali. Altri aspetti riguardano ad esempio la presenza o meno di un prezzo minimo e massimo all’interno del cosiddetto price corridor; l’Ue non ce l’ha, non essendo dotata di una politica fiscale comune».
Nonostante le differenze, è possibile provare a integrare tra loro i vari mercati delle emissioni?
«È possibile e in qualche caso è già avvenuto, come tra i mercati Ue e svizzero nel 2020 o tra California e Quebec un decennio fa; in entrambi i casi si è riusciti a combinare insieme i rispettivi mercati, attraverso il cosiddetto linking. Non è un’operazione facile, perché unire due sistemi da giurisdizioni diverse richiede numerosi passaggi tecnici e molta fiducia tra gli interlocutori.
Al proposito, vorrei aggiungere due parole sul caso del Regno Unito, che fino alla Brexit era un giocatore fondamentale nell’Eu Ets. Dopo l’uscita dall’Ue il prezzo della CO2 era inizialmente allineato a quello europeo, ma negli ultimi mesi in UK ha subito un forte crollo: alcuni segnali della politica climatica britannica sono sembrati una riduzione nell’impegno di decarbonizzazione, e non sono stati presi bene dal mercato. Per questo circa 50 grandi associazioni industriali britanniche, così come anche la Scozia, hanno chiesto al Governo di tornare a unirsi con l’Ets europeo: nel solo Regno Unito le piccole dimensioni del mercato delle emissioni lo rendono infatti vulnerabile a grandi fluttuazioni di prezzo, mentre unire due mercati ha senso perché aumentando la liquidità può incrementare l’efficienza del mercato e incentivare le innovazioni tecnologiche».
Nel 2019 gli economisti ambientali di tutta Europa, riuniti nell’Eaere che presiede, lanciarono un appello per dare un prezzo alla CO2 anche attraverso una carbon tax. La ritiene sempre utile?
«L’appello è sempre utile e l’importante è dare un prezzo alla CO2, che sia attraverso i mercati delle emissioni oppure attraverso una tassa. Sempre di carbon pricing si tratta, per applicare il principio per il quale chi inquina deve pagare. Ed è importante che sia un prezzo più alto di quello che abbiamo visto finora, da far crescere in modo progressivo ma inesorabile».
Questi strumenti di tassazione verde rischiano però di essere regressivi, ovvero di impattare più duramente sulle fasce più svantaggiate della cittadinanza. Com’è possibile evitarlo?
«Dobbiamo stare molto attenti a rendere la transizione ecologica socialmente accettabile, ed è possibile farlo attraverso una redistribuzione delle risorse. I soldi ci sono, perché sia che si tratti di carbon tax sia che si parli di Ets, si viene a generare un ammontare ingente di entrate. L’importante è ridistribuirle in modo da ridurre i potenziali effetti regressivi, e al contempo comunicarlo alla cittadinanza: i soldi che vi arrivano derivano dalla politica climatica. Si tratta di un messaggio che potrebbe sicuramente aumentare l’accettabilità di queste politiche».
Un recente studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa suggerisce la possibilità (e l’utilità) di far pagare la transizione ecologica europea all’1% dei più ricchi; l’Iniziativa dei cittadini europei (Ice) Tax the rich restringe ancora di più il cerchio, concentrandosi sullo 0,1% più ricco. Cosa ne pensa?
«Penso che la progressività fiscale sia un criterio fondamentale e fondante delle politiche economiche, quindi non può che essere così. Ci sono inoltre molti studi che mostrano come l’impatto ecologico dei più ricchi sia decisamente più alto. Non si tratta di idee nuove, se ne parla da molti anni come nel caso della Tobin tax. Bisognerebbe iniziare a implementarle».
Al contempo l’Italia garantisce ogni anno (seppur con stime variabili) decine di miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi, prevalentemente ai combustibili fossili. È il momento di cancellarli?
«Si tratta di sussidi anacronistici che vanno assolutamente contro il sentiero della decarbonizzazione, da anni ne caldeggio la cancellazione. Si tratta di un fatto ormai riconosciuto anche dalle ultime Cop sul clima, addirittura dai Paesi produttori di combustibili fossili, sebbene ciascuno coi propri distinguo. La cancellazione dei sussidi ai combustibili fossili è un passaggio obbligatorio per la neutralità climatica, ne va della nostra salute, del nostro benessere ma anche della nostra sopravvivenza.
Per renderlo socialmente accettabile, anche in questo caso la soluzione sta nelle politiche redistributive: sono queste lo strumento su cui dobbiamo basarci per rendere la transizione ecologica progressiva e concretamente fattibile».
Alla videointervista ha collaborato Giulia D'Angelis.