L’attività antropica cambia la Terra e influenza la trasmissione delle malattie infettive
Lo studio “A meta-analysis on global change drivers and the risk of infectious disease”, pubblicato su Nature da un team di ricercatori statunitensi guidato da Michael Mahon, Alexandra Sack e Jason Rohr dell’ University of Notre Dame, dimostra che «la perdita di biodiversità – la diminuzione della varietà di organismi viventi – può essere uno dei principali motori delle malattie infettive in tutto il mondo, seguita dalle specie introdotte (non autoctone), dal cambiamento climatico e dall'inquinamento chimico».
I ricercatori evidenziano che «questo studio è particolarmente importante perché sapevamo che le malattie infettive erano in aumento e che gli esseri umani stavano modificando profondamente l’ambiente, ma non sapevamo quali fattori di cambiamento globale aumentassero o diminuissero maggiormente le infezioni e in quali contesti, e quindi quali sforzi per il controllo delle malattie fossero più importanti. Volavamo parzialmente alla cieca. Ora, questo studio fornisce maggiori indicazioni sulle condizioni associate sia all'aumento che alla diminuzione delle malattie infettive di piante, animali e esseri umani». Mahon, Sack, Rohr e i loro collaboratori hanno analizzato un dataset di 3.000 osservazioni da una letteratura scientifica scritta in 8 lingue diverse e dicono che «i risultati erano coerenti tra le malattie umane e non umane. Mentre 4 fattori di cambiamento hanno aumentato il rischio di malattie infettive, la perdita di habitat – in particolare l’urbanizzazione – ha ridotto le malattie».
Per realizzare questa meta-analisi, il team di scienziati ha cercato termini come “malattia”, “parassita” e “agente patogeno” e li ha combinati con 5 fattori di cambiamento globale: cambiamento climatico, perdita di biodiversità, specie invasive o specie invasive introdotte, perdita e cambiamento dell’habitat e inquinamento chimico. L’analisi approfondita, iniziata prima della pandemia di Covid-19, ha confrontato anche le malattie umane e non umane. I ricercatori hanno esaminato quasi 1.500 combinazioni ospite-parassita e hanno preso in considerazione dai virus ai funghi, ai parassiti e agli ospiti come esseri umani, uccelli, molluschi e mammiferi. Hanno anche suddiviso i fattori di cambiamento globale in sottocategorie. Il cambiamento climatico includeva categorie come temperature estreme, temperature medie e precipitazioni, mentre per la perdita di habitat includeva sottocategorie come frammentazione delle foreste, urbanizzazione e altre. Tutti gli organismi hanno mostrato modelli simili per quanto riguarda i fattori di cambiamento globale.
Rohr sottolinea: «Il fatto che molti fattori che determinano il cambiamento globale aumentino i parassiti degli esseri umani negli animali non umani e aumentino tutti i parassiti negli animali selvatici suggerisce che il cambiamento ambientale potrebbe aumentare la diffusione dei parassiti dagli animali agli esseri umani e, quindi, anche il rischio di pandemia. La mancanza di dipendenza dal contesto per il cambiamento climatico suggerisce che l’aumento delle malattie in risposta al cambiamento climatico sarà coerente e diffuso, sottolineando ulteriormente la necessità di ridurre le emissioni di gas serra per mitigare questi impatti dannosi del cambiamento climatico». Analizzando gli studi precedenti. il team di ricerca ha notato che ce n’erano pochi sugli interventi per porre rimedio agli effetti del cambiamento globale sulle malattie.
«Ci sono prove considerevoli che invertire semplicemente l’entità dei fattori che determinano il cambiamento globale può essere insufficiente per contrastarne completamente gli effetti - ha detto Rohr - Pertanto, i ricercatori hanno bisogno di più test sugli interventi per porre rimedio ai fattori di massima priorità descritti nello studio. Devono anche valutare se il ripristino dell’ecosistema può essere utilizzato come leva per gestire le malattie. La maggior parte degli studi nella meta-analisi considerano solo gli effetti di un singolo fattore di stress o di cambiamento globale sulla malattia, nonostante la maggior parte degli organismi subisca diversi fattori contemporaneamente. Dato che le risorse per gestire le malattie infettive sono limitate, i ricercatori devono indirizzare le risorse verso i fattori di cambiamento globale che hanno maggiori probabilità di aumentare le malattie. Il nostro studio suggerisce che la riduzione delle emissioni di gas serra, la gestione della salute dell’ecosistema e la prevenzione delle invasioni biologiche e della perdita di biodiversità potrebbero aiutare a ridurre il peso delle malattie vegetali, animali e umane, soprattutto se abbinati a miglioramenti dei determinanti sociali ed economici della salute».
In contemporanea con lo studio di Mahon, Sack e Rohr un team di ricercatori britannici e della Namibia ha pubblicato su Science lo studio “Future malaria environmental suitability in Africa is sensitive to hydrology” che illustra un nuovo modello per prevedere gli effetti del cambiamento climatico sulla trasmissione della malaria in Africa che potrebbe portare a interventi più mirati per controllare la malattia.
Un approccio innovativo che ha creato un quadro più approfondito delle condizioni favorevoli alla malaria in Africa e che ha evidenziato il ruolo dei corsi d’acqua come il fiume Zambesi nella diffusione della malaria, anche perché è emerso che la popolazione che vive in aree adatte alla malaria per un massimo di 9 mesi all'anno sia quasi 4 volte di più di quanto si pensasse in precedenza.
L’autore principale dello studio, Mark Smith della School of Geography dell’università di Leeds è convinto che «questo ci fornirà una stima fisicamente più realistica di dove in Africa migliorerà o peggiorerà la malaria. E man mano che diventano disponibili stime sempre più dettagliate dei flussi d’acqua, possiamo utilizzare questa comprensione per indirizzare la definizione delle priorità e la personalizzazione degli interventi contro la malaria in modo più mirato e informato. Date le scarse risorse sanitarie spesso disponibili, questo è davvero utile».
La malaria è una malattia trasmessa da vettori sensibile al clima e nel solo 2022 ha infettato 249 milioni di persone e causato 608.000 morti. Il 95% dei casi globali sono segnalati in Africa, ma negli ultimi anni la riduzione della malaria è rallentata o addirittura è ritornata a crescere, in parte anche a causa di uno stallo negli investimenti nelle risposte globali al controllo della malaria. I ricercatori prevedono che «Le condizioni calde e secche causate dai cambiamenti climatici porteranno a una diminuzione complessiva delle aree adatte alla trasmissione della malaria dal 2025 in poi» e il nuovo approccio basato sull’idrologia mostra anche che «I cambiamenti nell’idoneità alla malaria si osservano in luoghi diversi e sono più sensibili alle future emissioni di gas serra di quanto si pensasse in precedenza. Ad esempio, le riduzioni previste dell’idoneità alla malaria in tutta l’Africa occidentale sono più estese di quanto suggerito dai modelli basati sulle precipitazioni, estendendosi fino al Sud Sudan, mentre gli aumenti previsti in Sud Africa sembrano ora seguire corsi d’acqua come il fiume Orange».
Uno degli autori dello studio, Christopher Thomas dell’università di Lincoln, aggiunge che «il progresso chiave è che questi modelli tengono conto del fatto che non tutta l’acqua rimane dove piove, e questo significa che le condizioni di riproduzione adatte alle zanzare della malaria possono essere più diffuse, soprattutto lungo le principali pianure alluvionali dei fiumi nelle regioni aride e nelle savane tipiche di molte regioni dell'Africa. Quel che sorprende nel nuovo modello è la sensibilità della durata stagionale ai cambiamenti climatici: questo può avere effetti drammatici sulla quantità di malattie trasmesse».
Il co-autore dello studio, Simon Gosling, professore di rischi climatici e modellistica ambientale presso all’università di Nottingham, conclude: «Sebbene una riduzione complessiva del rischio futuro di malaria possa sembrare una buona notizia, avviene a costo di una ridotta disponibilità di acqua e di un rischio maggiore di un’altra malattia significativa, la dengue». Smith conclude: «Arriveremo presto al punto in cui utilizzeremo i dati disponibili a livello globale non solo per dire dove sono i possibili habitat, ma anche quali specie di zanzare hanno maggiori probabilità di riprodursi e dove, e questo consentirebbe alle persone di mirare davvero agli interventi di cui hanno bisogno contro questi insetti».