Clima, la Cina lavora per occupare lo spazio di potere lasciato vuoto dagli Usa dopo l’elezione di Trump
«Un nuovo leader climatico a levante». È questa la sintesi con cui la Fondazione Eni Enrico Mattei analizza l’attivismo nelle negoziazioni dimostrato in queste prime giornate della Cop29 da parte della Cina. Subito dopo l’elezione di Trump come 47esimo presidente degli Stati Uniti, molti analisti avevano ipotizzato che nel caso di una politica climatica scettica o addirittura di un ritiro dall’Accordo di Parigi e dall’Unfccc, si sarebbe aperto uno spazio di potere che la Cina avrebbe potuto sfruttare, anche per consolidare una nuova posizione internazionale e un ruolo di spicco nelle catene del valore legate alle tecnologie verdi.
Queste previsioni, nota la Feem, si stanno rivelando realistiche durante il vertice in corso a Baku, dove la Cina sta acquisendo sempre più le vesti di leader per la transizione energetica. Solo ieri, Hua Wen, vicedirettore generale del Dipartimento per la conservazione delle risorse e la protezione ambientale di Pechino, ha dichiarato che la determinazione della Cina nella transizione energetica è «incrollabile».
Questa posizione rappresenta le molte politiche domestiche adottate da Xi Jinping negli anni recenti. Nel 2021, sullo stile dell’Ets (Emission trading system) europeo, la Cina ha lanciato il più grande mercato di scambio di emissioni di carbonio a livello globale (che copre circa 4 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, in continua espansione). Dal 2025, oltre al settore energetico, includerà le industrie dell’acciaio, dell’alluminio e del cemento, arrivando a coprire il 60% delle emissioni nazionali. La differenza sostanziale con il mercato del carbonio europeo, sottolinea però l’analisi condotta dalla Feem, risiede nel fatto che quello cinese è un mercato basato non sulle emissioni totali, ma sull’intensità di carbonio (ovvero le emissioni prodotte per unità di output), incentivando quindi a un efficientamento energetico e allo spostamento verso fonti di energia a più bassa intensità di carbonio, più che a una riduzione assoluta delle emissioni.
Parallelamente, la Cina ha da anni avviato una massiccia espansione delle energie rinnovabili, raggiungendo il primato di maggior produttore di pannelli solari al mondo e di principale mercato per le tecnologie legate alle energie rinnovabili e per i veicoli elettrici. Tant’è vero che l’aumento della produzione di energia rinnovabile in Cina nel 2023 ha rappresentato il 40% dell’espansione delle energie rinnovabili globali.
Con questa base, Pechino sta conquistando una posizione negoziale forte alla Cop di quest’anno. Da un lato, difende a gran voce il multilateralismo, criticando le politiche unilaterali e protezioniste come «un’ingiustificabile discriminazione» (e ha tentato, invano, di far inserire il Cbam – il meccanismo europeo di aggiustamento del prezzo dei beni in base all’intensità carbonica ai confini – nell’agenda negoziale). Dall’altro, sostiene la posizione dei Paesi in via di sviluppo sul nuovo obiettivo di finanza climatica (Ncqg), affermando che una ridiscussione della base dei donatori – che la vedrebbe esplicitamente diventare parte di questo gruppo – sposterebbe l’attenzione dalla questione più importante: l’ambizione del sostegno che i Paesi industrializzati devono a quelli a basso e medio reddito. Informalmente, però, alcuni negoziatori hanno affermato che il tentativo di inserire esplicitamente la Cina all’interno della lista dei donatori potrebbe essere controproducente: Pechino, infatti, dal 2016 ha già mobilitato 24,5 miliardi di dollari di finanziamenti per il clima verso i Paesi in via di sviluppo, posizionandosi come sesto maggiore donatore globale di finanziamenti per il clima, dopo Giappone, Germania, Francia, Stati Uniti e Regno Unito. Consapevole della propria forza negoziale, ieri il vicepremier cinese Ding Xuexiang ha chiesto fermamente ai Paesi sviluppati di aumentare il loro sostegno finanziario, dividendo le risorse in modo equo (50-50) tra mitigazione e adattamento.