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L’analisi del laboratorio Ref ricerche

Acqua, il 90% degli italiani a favore di nuove infrastrutture per adattare i territori al rischio climatico

Serve un insieme articolato di misure da attivare congiuntamente, ma non viene realizzato perché manca la pianificazione, tanto di area vasta quanto di lungo termine
 |  Acqua

Il clima è cambiato: questo è un fatto. Gli eventi estremi stanno divenendo una tragica ricorrenza. Anche in Italia tocchiamo con mano questa estremizzazione con fenomeni di abbondanza e scarsità d’acqua. A meno di diciotto mesi dalle alluvioni del 2023, Emilia-Romagna e Toscana si trovano nuovamente a fronteggiare eventi i cui tempi di ritorno si era abituati a quantificare nell’ordine delle centinaia d’anni. Al contempo, a poche centinaia di chilometri di distanza, diversi territori del nostro Mezzogiorno affrontano un contesto di siccità severissima.

Ciò che sino a qualche anno fa si prospettava come possibile evoluzione dello “scenario” è ormai assurto a tragica “cronaca”: non più “il clima che sarà” ma “il clima che è”.

Il cambiamento climatico è pervasivo: non solo fenomeni “macro”, come alluvioni e siccità, ma anche un tessuto di fenomeni secondari e nascosti, comunque risultanti in una minaccia per il benessere delle persone. Per citarne due, si segnalano ad esempio i rischi nutrizionali legati ai danni all’agricoltura o i rischi per la salute causati dalle ondate di calore nella popolazione anziana.

In questa prospettiva la pianificazione e le infrastrutture divengono pilastri necessari su cui costruire una strategia di resilienza: adattamento e mitigazione sono le dimensioni al centro del cambio di paradigma per affrontare il “nuovo mondo” che stiamo imparando a conoscere, inserite in un quadro strategico e condiviso in grado di trasformare la “risposta emergenziale” in “azione preventiva” (si veda il Position Paper n. 267). Dunque, non più solo azioni urgenti in risposta all’emergenza, ma una nuova strategia basata sull’analisi del rischio climatico – presente e prospettico – e degli impatti del cambiamento climatico sulle persone, sul territorio e sulle attività produttive. Una roadmap per l’adattamento dei territori al clima che cambia. Studiare le emergenze per identificare gli anelli più deboli del sistema infrastrutturale, utilizzare un quadro di misurazioni e azioni ad ampio spettro per individuare le risposte di adattamento, come codificato da OECD, IPCC e dalla Commissione Europea: occorre partire da qui.

1. Quale destino per l’acqua? la disponibilità idrica e i prelievi

L’aumento delle temperature e l’affermarsi di un nuovo regime di alternanza tra siccità e copiose precipitazioni sono i fenomeni che contribuiscono al deterioramento della qualità e della quantità di risorsa idrica disponibile e che la rendono sempre più “fragile”.

Ai fini di una corretta interpretazione del fenomeno, è necessario leggere il clima, andando oltre le tendenze di breve periodo per poter cogliere la progressiva tropicalizzazione del clima anche alle nostre latitudini.

Ed è questo il nuovo regime pluviometrico cui dovremo adattarci nel nostro Paese: una quantità di pioggia tendenzialmente stabile nel corso degli anni, ma la cui distribuzione nel tempo e nello spazio è profondamente cambiata, alternando periodi siccitosi a periodi estremamente umidi. Un trend che si afferma soprattutto a partire dagli anni 2000, in cui si assiste ad un chiaro aumento della variabilità del regime delle precipitazioni. In sintesi: le precipitazioni rimangono costanti, ma divengono sempre più imprevedibili.

Le proiezioni sul volume delle precipitazioni totali nel nostro Paese, oggi pari a 296 miliardi di metri cubi, sono attese in lieve diminuzione nei prossimi 30 anni, a circa 280 miliardi di metri cubi. Pur tuttavia, l’aumento delle temperature in corso risulta in un aumento dell’evapotraspirazione riducendo, di conseguenza, la disponibilità idrica. Il trentennio 1991-2020, secondo ISPRA, ha visto una riduzione della disponibilità della risorsa del -20% rispetto alla media del periodo 1921-1950.

ISPRA quantifica in circa 140 miliardi di metri cubi la disponibilità idrica media annua in Italia, misurata tra il 1950 e il 2023. Ma si tratta di un dato che mostra ampie fluttuazioni a seconda degli anni (si pensi alla siccità generalizzata del 2022).

Un volume che,  va confrontato con i prelievi di acqua nel nostro Paese: sono circa 40 miliardi i metri cubi di acqua prelevati ogni anno in Italia, di cui circa il 40% destinati agli usi agricoli, e per circa il 20% ciascuno rispettivamente all’uso civile, all’uso industriale e alla produzione di energia elettrica (dati dell’European Environment Information and Observation Network ).

Ma da cosa passa una migliore gestione della risorsa idrica? Da una parte, dal riconoscere che l’acqua è una risorsa scarsa, è necessario riuscire a raccoglierla, accumularla e portarla dove più necessaria. Non solo ciò limita gli effetti nefasti della siccità, ma permette al contempo di ridurre anche i danni causati da abbondanza di precipitazioni, che possono risultare in alluvioni ed esondazioni: viviamo in un territorio idrogeologicamente fragile, giacché il 94% dei Comuni italiani è esposto a rischio di dissesto. Dall’altra, interiorizzando che, seppur l’acqua non è destinata a sparire nel breve periodo e sarà relativamente abbondante rispetto agli usi, essa va gestita con oculatezza ed usata con parsimonia.

2. I costi delle emergenze? Solo la punta dell’iceberg

Quanti danni causa un periodo di siccità? Quanti un’alluvione? Sicuramente è più semplice la stima dei costi della gestione emergenziale, poiché la maggioranza dei fondi viene erogata contestualmente all’emergenza e deve essere dettagliatamente rendicontata. Tuttavia, il costo di questa fase è solo la “punta dell’iceberg”. Altri importanti costi apparentemente nascosti fanno sentire il loro peso – anche per periodi lunghi – sullo sviluppo generale del territorio colpito. Si tratta di costi per interventi di riparazione di ripristino di beni danneggiati, per mancati guadagni alle attività economiche, per la messa in sicurezza dei territori colpiti, minori introiti nelle casse pubbliche (a seguito di sgravi fiscali e aiuti economici), costi assicurativi e finanziari e da ultimo – ma non per importanza – costi sociali e individuali.   

Con riferimento alla crisi idrica del 2022 e con riferimento esclusivo all’agricoltura, Coldiretti ha stimato i danni della siccità occorsa nel 2022 in 6 miliardi di euro. La siccità, però, non risulta solo in danni al comparto agricolo, e pertanto sarebbe necessario uno sguardo più organico per cogliere la portata complessiva dei danni negativi causati. Il complesso delle risorse utilizzate per la gestione di tale emergenza tramite la Protezione Civile ammonta a circa 55 milioni di euro.

Con riferimento all’alluvione dell’Emilia-Romagna del 2023, i danni accertati ammontano a quasi 9 miliardi di euro, a fronte di fondi stanziati per 6,5 miliardi di euro. L’alluvione in Toscana dell’autunno 2023, invece, ha assommato danni totali per 2,7 miliardi di euro. Gli interventi in somma urgenza realizzati nelle due diverse situazioni ammontano rispettivamente a circa 400 milioni di euro e 30 milioni di euro.

Dal confronto di questi primi dati emerge chiaramente come i fondi dedicati alla gestione delle emergenze rappresentino solo una piccola parte della quantificazione economica dei danni (per un’analisi dettagliata dei costi e della gestione dei fondi riguardanti gli eventi del 2022 e del 2023 si rimanda alla versione estesa del presente Position Paper).

In ogni caso, quali lezioni si possono trarre dall’uso dei fondi nelle fasi emergenziali? Capire dove sono allocati i fondi permette di identificare gli ambiti di maggior fragilità con specifico riferimento alle infrastrutture: nel caso della siccità queste si riflettono nelle misure temporanee messe in atto per sopperire alle mancanze infrastrutturali – come, ad esempio, le forniture tramite autobotti e acqua confezionata – ma anche in interventi orientati alla rete, come la realizzazione di interconnessioni temporanee. Nel caso delle alluvioni, invece, gli ambiti a cui sono state dedicate le maggiori risorse sono le infrastrutture di rete del servizio idrico, mentre nel caso della gestione dei rifiuti è proprio l’attivazione di servizi riparativi – quale la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, ad aver assorbito la maggior parte delle risorse, ad evidenziare quindi la mancanza di una strategia ex-ante di difesa dei territori, alla luce del mutato clima. Dall’altro lato, quindi, avendo evidenziato le maggiori fragilità, è possibile riconoscere in queste gli ambiti in cui è necessario un approccio strategico volto ad implementare infrastrutture a “resa a di clima”.

3. Resa a prova di clima delle infrastrutture: come fare?

“La resa a prova di clima è un processo che integra misure di mitigazione dei cambiamenti climatici e di adattamento ad essi nello sviluppo di progetti infrastrutturali”. Questa la definizione utilizzata dalla Commissione europea nei suoi “Orientamenti tecnici per infrastrutture a prova di clima nel periodo 2021‑2027”. Si tratta, di un complesso di analisi, quantificazioni e giudizi, necessari a determinare l’utilità del finanziamento richiesto per la realizzazione di una infrastruttura, valutandone i benefici lungo tutta la vita utile dell’opera e la sua coerenza con gli obiettivi climatici dell’Unione Europea.

La resa a prova di clima si articola attorno a due pilastri, mitigazione e adattamento,e due fasi una preliminare, detta di screening, ed una successiva chiamata “analisi dettagliata”, che viene realizzata solo se ritenuta necessaria in esito allo screening, al fine di limitare gli onerieconomici delle attività di progettazione e valutazione.

Con mitigazione si intende la riduzione dell’occorrenza di accadimento degli impatti dei cambiamenti climatici prevenendo, diminuendo o compensando le emissioni di gas climalteranti: cruciale in quest’ambito è il calcolo dell’impronta di carbonio e la messa in atto di azioni per ridurla. Le azioni in questo senso sono guidate dagli obiettivi fissati dall’Unione Europea per la riduzione delle emissioni entro il 2030 e il 2050.

Il principio di “efficienza energetica al primo posto” privilegia le soluzioni con un migliore bilanciamento tra costi economici e benefici ambientali, che si concretizza tramite un risparmio negli usi finali e complessivi dell’energia in tutte le fasi del progetto, dallo sviluppo, alla realizzazione, sino allo smantellamento finale.

L’adattamento, invece, prevede di adottare misure adeguate a prevenire o ridurre al minimo i danni generati dai cambiamenti climatici: si tratta dunque di valutare i rischi e le vulnerabilità associati ai cambiamenti del clima. Infatti, la lunga durata della vita utile che caratterizza le infrastrutture fa sì che siano esposte agli effetti del cambiamento climatico. È proprio l’adozione di misure di adattamento che rende le infrastrutture, e quindi i territori, resilienti agli eventi estremi, come alluvioni, nubifragi e ondate di calore sempre più intense e frequenti, ma anche l’affacciarsi di fenomeni cronici, quali l’innalzamento del livello del mare o il cambiamento del regime delle precipitazioni. Riconoscere il grado di vulnerabilità e i rischi a cui le infrastrutture sono esposte è necessario al fine di identificare e realizzare le soluzioni di adattamento più adeguate ed efficaci.

È poi necessario poter misurare il pericolo, l’esposizione e la vulnerabilità. Il grado di esposizione indica il livello di potenziale danno che un evento climatico può causare su classi omogenee di infrastrutture collocate nella medesima area, mentre la vulnerabilità si riferisce alle caratteristiche specifiche di infrastrutture, quali ad esempio le sue caratteristiche tecniche, la vetustà, gli interventi di adattamento eventualmente già implementati. Il livello di esposizione e vulnerabilità è quindi inversamente proporzionale alla capacità di adattamento ai rischi fisici, funzione anche degli investimenti attuati per incrementare la resilienza di asset e beni.

4. Un futuro resiliente? Occorre costruirlo da oggi

Non è più possibile rappresentare gli eventi climatici estremi come “maltempo”, occorre riconoscere che l’Italia intera è sottoposta a vulnerabilità climatiche e che bisogna agire. Un punto nevralgico sono le infrastrutture. Esse sono il pilastro su cui si deve fondare la strategia di resilienza del Paese, legate a doppio filo con i territori su cui insistono. La stretta relazione tra “infrastrutture” e “resilienza climatica” è centrale in un recente lavoro dell’OECD Infrastructure for a Climate-Resilient Future. Quali sono allora le azioni necessarie per realizzare un nuovo approccio orientato alle infrastrutture?

1.     Anticipare, identificare e pianificare. Innanzitutto, anticipare l’evoluzione del clima che cambia – non sottostimando gli imprevedibili fenomeni fuori scala, e identificare le conseguenze del cambiamento climatico sulle infrastrutture e sulla loro capacità di adattarsi, ma anche sulla loro capacità di rendere resiliente il territorio. Realizzare il sistema infrastrutturale considerando i probabili rischi aumenta la vita utile dell’infrastruttura, garantisce un ritorno sugli investimenti e, simultaneamente, anche la continuità delle attività economiche connesse, aumenta l’affidabilità della fornitura del servizio, contiene i costi di danni ed emergenze, riduce l’onere delle manutenzioni straordinarie e dell’adeguamento ex-post. La pianificazione, infine, si riconduce alla stesura di una roadmap di lungo periodo, chiara e condivisa, che identifica le azioni che devono essere intraprese, e il modo in cui ciascuna impatterà sui diversi stakeholder.

2.     Agire: una strategia condivisa. Seppur banale a dirsi, è necessario che, alla luce dei rischi identificati, siano intraprese azioni a tutela dei territori al fine di assicurare la resa a prova di clima delle infrastrutture. è necessario il finanziamento della realizzazione/ammodernamento/manutenzione straordinaria dell’infrastruttura. Se è vero che il costo di infrastrutture progettate con l’intenzione della resilienza climatica può essere maggiore, è altrettanto vero che esse sono in grado di generare un maggior ritorno economico in futuro. Complessivamente, è stato calcolato che per ogni euro investito nella realizzazione di infrastrutture resilienti, si ottengono quattro euro di benefici.

Se, al momento, come registrato dall’OECD, la promozione della resilienza avviene soprattutto per il tramite di investimenti diretti da parte dello Stato, diverse strade alternative o complementari possono essere percorse per superare i fallimenti del mercato e la mancanza di consapevolezza che si frappongono al finanziamento in tali opere. Certamente vi sono diversi strumenti e meccanismi di policy in grado di essere utilizzati per promuovere la realizzazione di infrastrutture resilienti: schemi volontaristici, meccanismi incentivanti, strumenti regolatori o legali. Se, da una parte, è interesse degli operatori mantenere la continuità dei servizi investendo nella resilienza, dall’altra requisiti aggiuntivi possono comportare ulteriori costi, che ricadono infine su cittadini e imprese. L’approccio regolatorio stabilisce obblighi chiari e misurabili e le conseguenze derivanti dal non agire. Gli approcci volontaristici, come le linee guida sulla resilienza, le attività di sensibilizzazione o la condivisione delle migliori pratiche, sono spesso preferibili per coinvolgere gli stakeholder, sebbene possano portare a risultati incerti.

Per quanto riguarda la partecipazione dei territori è necessario identificare e coinvolgere tutti i portatori di interesse, stakeholder (si veda Position Paper n. 263), e tra questi soprattutto i cittadini, ricoprendo essi il duplice ruolo di “soggetti dante causa delle politiche” e al contempo di destinatari finali delle azioni realizzate sul territorio:un’azione necessaria per realizzare la “resilienza sociale”, ossia favorire l’accettazione nei territori.

Nel rivolgersi ai cittadini è necessario riconoscere la “natura umana”, che ci espone sovente a bias cognitivi, distorsioni nella percezione della realtà, e la necessità di adottare linguaggi e processi comunicativi adeguati (si veda Position Paper n. 149). Una recente indagine del Laboratorio REF Ricerche ha rilevato come il 90% dei cittadini del Paese è disponibile a sostenere la realizzazione di infrastrutture per l’adattamento dei territori. Tra le direzioni di intervento proposte dagli addetti ai lavori non emergono priorità particolari piuttosto un insieme articolato di misure che vanno attivate congiuntamente.

Perché dunque queste direzioni non sono già parte del nostro percorso di adattamento? Ciò è in gran parte ascrivibile ad un deficit di pianificazione, tanto di area vasta quanto di lungo termine. Come invece ricordato dal OECD, sono proprio questi i pilastri su cui la strategia di resilienza si deve fondare.

a cura di Donato Berardi, Roberto Bianchini, Michele Tettamanzi, Samir Traini

Laboratorio REF Ricerche

Il Laboratorio è un think tank che riunisce rappresentanti del mondo dell’impresa e delle istituzioni al fine di rilanciare il dibattito sul futuro dei servizi pubblici locali. Molteplici tensioni sono presenti nel panorama economico italiano, quali la crisi delle finanze pubbliche, la spinta comunitaria verso la concorrenza, la riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, il rapporto tra amministratori e cittadini, la tutela dell’ambiente. Per esperienza, indipendenza e qualità nella ricerca economica REF Ricerche è il “luogo ideale” per condurre il dibattito su binari di “razionalità economica” e sostenere sviluppo e occupazione nella transizione ecologica.