Ai grandi inquinatori non sia consentito l’accesso alle politiche sul clima
«Siamo venuti in buona fede, con a cuore la sicurezza delle nostre comunità e il benessere del mondo. Eppure, abbiamo visto il peggio dell'opportunismo politico qui a questa Cop, così si gioca con la vita delle persone più vulnerabili del mondo. Gli interessi delle industrie dei combustibili fossili sono stati determinanti per bloccare il progresso e minare gli obiettivi multilaterali per i quali abbiamo lavorato. Non si può permettere che ciò accada».
Così descrive Tina Stege, inviata per il clima per le Isole Marshall, il processo che ha portato alla stesura dei documenti finali della Cop 29 sul clima di Baku, in Azerbaijan, terminata a notte inoltrata del 23 novembre. Risultati frutto di un accordo al ribasso sul tema principale, cioè stabilire un nuovo obiettivo quantitativo di finanza climatica (Ncqg - New collective quantified goal) post 2025. Argomento che durante la plenaria di chiusura ha scaldato l’anima e acceso i toni dei Paesi in via di sviluppo «traditi dal comportamento delle nazioni più ricche».
Per fare qualche esempio, la rappresentante della delegazione nigeriana, Nkiruka Maduekwe, ha affermato che il nuovo obiettivo finanziario è «un insulto a ciò che afferma la Convenzione Onu sul cambiamento climatico (Unfccc)» e che «300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 sono uno scherzo»; Chandni Raina, la rappresentante indiana, prima ha contestato le modalità con cui la presidenza azera ha condotto il negoziato, «siamo estremamente delusi per questo incidente, ci avete imposto un accordo», e poi ha dichiarato che «l'India si oppone all'adozione di questo documento»; il negoziatore di Cuba, Pedro Luis Pedroso, ha parlato di un Ncqg che «dimostra la volontà dei Paesi sviluppati di rinunciare alle proprie responsabilità nei confronti delle nazioni in via di sviluppo, in continuità con la dinamica del colonialismo ambientale». Inoltre, Juan Carlos Monterrey Gómez, delegato di Panama, una volta terminata la plenaria ha spiegato: «Le nazioni sviluppate ci lanciano sempre un messaggio all'ultimo minuto, ce lo infilano in gola e poi, per il bene del multilateralismo, dobbiamo sempre accettarlo, altrimenti i meccanismi climatici entreranno in una spirale discendente orribile, e nessuno ne ha bisogno. Questo è l'unico spazio che abbiamo per negoziare e lavorare per raggiungere i nostri obiettivi comuni. Abbiamo accettato il testo perché non potevamo lasciare Baku senza un testo, ma non siamo per niente soddisfatti». In sostanza: meglio un cattivo accordo che nessuno.
Come detto, l’attesa era per il nuovo obiettivo finanziario chiamato a sostituire i 100 miliardi di dollari all’anno stabiliti a Copenaghen nel 2009, rilanciati dall’Accordo di Parigi nel 2015 con scadenza il prossimo anno. A Baku si è deciso, per il post 2025, di estendere tale cifra a 300 miliardi di dollari all’anno da raggiungere entro il 2035. 300 miliardi sono però lontani dai 1300 miliardi richiesti, soglia minima individuata dalla parte più vulnerabile del Pianeta per mettersi al riparo dal riscaldamento globale con l’attività di adattamento, e per svilupparsi con le fonti rinnovabili. La consistenza dell’Ncqg rischia dunque di influenzare il percorso di mitigazione: senza soldi i Paesi in via di sviluppo non saranno in grado di rendere efficace la transizione energetica, tantomeno riusciranno a presentare NDCs (impegni di riduzione delle emissioni climalteranti) ambiziosi per la Cop 30 (già ribattezzata la Cop della mitigazione, dato che tutti i Paesi devono presentare nuovi NDCs entro il 2025).
È qui, dunque, che si è consumata l’ennesima spaccatura tra Nord e Sud del mondo, anche perché i 1300 miliardi rappresentano già un compromesso, una stima al ribasso rispetto alle reali esigenze, come evidenzia lo stesso documento della Cop sull’Ncqg: «Le necessità per la mitigazione nei Paesi in via di sviluppo sono stimate tra 5,1 e 6,8 mila miliardi di dollari entro il 2030 […], quelle per l’adattamento tra 215 e 387 miliardi di dollari all'anno fino al 2030».
Inoltre, buona parte dei 300 miliardi di dollari non saranno le sovvenzioni richieste, la cifra può essere infatti raggiunta attraverso un’ampia gamma di possibilità (finanza pubblica e privata, accordi bilaterali o multilaterali, prestiti a tassi agevolati o di mercato, ecc.); non viene considerato il costo dell’inflazione nel tempo, ciò rende la cifra ancor più esigua; i Paesi vulnerabili sono consapevoli che, se si volesse, i soldi potrebbero essere mobilitati. Ne sono un esempio i 2300 miliardi di dollari del 2023, trovati in poco tempo, per le spese militari e, senza allontanarci troppo dall’argomento, i 7mila miliardi di dollari del 2022, tra sussidi diretti e indiretti, destinati alle aziende di gas, petrolio e carbone. Tra l’altro, come conferma il Fondo monetario internazionale, i sussidi diretti dei Paesi ricchi rivolti al settore fossile sono più che raddoppiati negli ultimi due anni. Una mole di denaro che ha contribuito a rendere il 2023 l’anno record per la produzione di gas e petrolio nel mondo e che incentiva il 95% delle compagnie fossili (sulle oltre 1700 analizzate) a pianificare una ulteriore espansione del settore nei prossimi anni, come rivela il rapporto dell’organizzazione Urgewald rilasciato proprio in occasione del summit di Baku.
Per la verità il documento della Cop 29 cita il target dei 1300 miliardi, ma non in modo vincolante e sottoforma di auspicio da realizzare entro il 2035, magari grazie all’aiuto contributivo di altri Paesi in via di sviluppo (sono ancora definiti così dalla Convenzione quadro sul clima) come la Cina e i Paesi del Golfo ricchi di petrolio. Infine, per fare chiarezza sull’obiettivo finanziario e per capire se e come alzare l’asticella sul tema, viene lanciata una road map che porta in Brasile, a Belem, sede della Cop 30 del prossimo anno.
Anche il programma sulla mitigazione ha fallito alla Cop 29, guidato dalla scarsa ambizione dei Paesi del G20 e da un presidente, Mukhatar Babayev, ministro delle risorse naturali dell’Azerbaijan con un passato nell’industria fossile di Stato “Socar”, troppo focalizzato sugli interessi di casa (più del 90% delle esportazioni dell’Azerbajan sono fatte da petrolio e gas, di queste il 57% del petrolio e il 20% del gas sono dirette verso l’Italia). Ecco spiegata la mancanza di un chiaro riferimento nei documenti di Cop 29 all’obiettivo 1,5°C, allo sviluppo delle rinnovabili, all’allontanamento dai combustibili fossili, e al picco delle emissioni da raggiungere entro il 2025, tutti obiettivi che invece erano stati inseriti nelle decisioni sul Global stocktake della Cop 28 dello scorso anno. Aspetti su cui ha pesato anche l’opposizione dell'Arabia Saudita, alla guida del blocco dei Paesi del golfo.
Si tratta di un gravissimo passo indietro, soprattutto sui combustibili fossili: ci erano voluti 30 anni per inserire (prima volta alla Cop 28) un riferimento a petrolio, gas e carbone all’interno di un testo negoziale. Tutto ciò contraddice il reale motivo per cui esistono le Cop sul clima: tagliare le emissioni e alzare l’ambizione.
L’unica nota positiva che emerge dalla Cop 29 è l’approvazione dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi. Dopo nove anni è stato infatti reso operativo il primo mercato globale del carbonio, con l’obiettivo di regolamentare il meccanismo dei crediti emessi e scambiati. Una metodologia, affidata alla supervisione dell’Onu incaricata di creare un “registro unico”, dove confluiranno diversi progetti, come quelli di riforestazione e quelli legati agli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Il framework consente inoltre ai Paesi di scambiare crediti di carbonio tra loro e con le aziende. Tuttavia, sul tema resta ancora molto da fare sotto l’aspetto della trasparenza, dell’efficacia dei progetti finanziati e del rispetto dei diritti umani.
Per quanto riguarda la giusta transizione, la Cop 29 non ha raggiunto alcun consenso. Per l’adattamento, invece, sono stati definiti 100 indicatori per l’attività reportistica che serviranno a stabilire come, quali e quanti obiettivi vengono raggiunti sul tema. Nessuna grossa novità neanche sul fondo Loss and damage (perdite e danni), reso operativo lo scorso anno.
La risposta della società civile
I risultati di Baku hanno scontentato la società civile, portando le Organizzazioni non governative (Ong) a interrogarsi. «L'esito della Cop 29 rischia di far regredire l'azione per il clima proprio nel momento in occorre accelerarla. Dopo due settimane di negoziati tesi e polarizzati, è stato concordato un accordo finanziario per il clima che non si avvicina minimamente a soddisfare le esigenze dei Paesi in via di sviluppo. Inoltre, questa Cop non è riuscita a inviare un forte segnale sulla necessità di ridurre rapidamente le emissioni ed eliminare gradualmente i combustibili fossili», si legge in un comunicato stampa del Wwf, mentre Jasper Inventor, capo della delegazione Greenpeace alla Cop 29, ha parlato di persone «stufe e disilluse. Ma noi persisteremo e resisteremo perché questa è una lotta per il nostro futuro! Non ci arrenderemo. Mentre guardiamo alla Cop 30 di Belem, dobbiamo aggrapparci alla speranza, una speranza saldamente ancorata alle persone che chiedono ambizioni climatiche».
Una tenacia dimostrata durante l’intero summit, quando la società civile ha invocato a gran voce un esito positivo, nonostante le tante misure restrittive che caratterizzano l’Azerbaijan. Del “clima” che si respirava ne ha parlato Pablo Chamorro Ortiz, coordinatore delle campagne e della mobilitazione presso Climate action network (Can) Europe: «Non c'è dubbio che questa sia stata una Cop repressiva. Siamo stati messi a tacere e messi da parte. Ma, cosa più importante, dobbiamo ricordare che questo non accade solo qui alla Cop 29. Lo spazio per la società civile si sta restringendo in tutto il mondo, con gli attivisti per il clima che vengono bloccati, molestati e detenuti in numeri allarmanti. Non possiamo permettere che questa diventi la nuova normalità».
Durante le due settimane di Baku, le attenzioni della società civile si son concentrate verso la massiccia presenza della lobby fossile, in rappresentanza di aziende come Chevron, Exxonmobil, Bp, Shell, Enie Totalenergies. Con 1773 lobbisti presenti, si è infatti registrata la seconda più alta partecipazione dopo quella della Cop 28 (quando i lobbisti erano 2456). Lo ha denunciato Kick big polluters out, un’unione di 450 Ong, sottolineando che questi lobbisti superano in numero sia i delegati delle 10 nazioni più vulnerabili al clima (1033), sia i delegati di quasi tutti i Paesi presenti, con le uniche eccezioni rappresentate dal Paese ospitante (l'Azerbaijan), dal Brasile che ospiterà la prossima Cop, e dalla Turchia. «È inaccettabile che le aziende di combustibili fossili catturino di nuovo lo spazio decisionale alla Cop. Stiamo denunciando questi numeri per chiedere la fine della presenza delle aziende fossili alle negoziazioni sul clima. Dovrebbero pagare per i danni e le sofferenze generate dall'industria, non bloccare l’azione globale attraverso false soluzioni», ha dichiarato Elena Gerebizza dell’associazione italiana ReCommon che ha aderito al movimento Kick big polluters out.
Per rendere più trasparente il processo negoziale e favorire decisioni in linea con quanto stabilito dall’Accordo di Parigi, le Ong in sostanza chiedono: che ai grandi inquinatori non sia concesso l’accesso alle politiche sul clima; che non sia consentito di fare greenwashing durante i summit, rifiutando qualsiasi genere di partnership; di includere in modo significativo la società civile nel processo delle Cop; di rivedere l’attuale sistema capitalistico attraverso la creazione di un nuovo sistema economico capace di mettere al centro i diritti dei popoli indigeni, delle comunità locali e la protezione di coloro che chiedono giustizia.
Alla luce dei risultati della Cop 29, sono richieste più che legittime.