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Perché il ponte sullo Stretto è un’opera inutile, costosa e molto rischiosa. Spiegato da Mario Tozzi

Mario Tozzi smonta il progetto Salvini, e propone il vero ponte verso sicurezza antisismica e idrogeologica, acqua, ferrovie, servizi pubblici
 |  Intervento

L’Italia del XXI secolo sarà un fermento di grandi opere e un brulicare di cantieri che faranno ripartire il Paese, anche se non è chiarissimo per dove. Porti, metropolitane, ferrovie ad alta velocità, ma soprattutto strade, autostrade e ponti, di cui - dicono - c’è un gran bisogno per adeguarsi all’Europa e ammodernarsi.

Per chi si vuole rendere conto se le cose stiano così - cioè se davvero servono tutte queste infrastrutture - non c’è che fare riferimento ai dati, alle statistiche, ai numeri, cioè agli unici parametri “oggettivi” che mostrano, inequivocabilmente, che non è così e che, magari, sarebbe un ottimo risultato manutenere quello che esiste già senza farsi prendere la mano da sogni di grandezza tanto faraonici da diventare incubi. Per tutti il ponte sullo stretto di Messina.

Come uomo che si occupa di scienza, di dubbi sul costruendo ponte ne coltivo più di uno. 
Non voglio qui accennare a probabili cambiamenti nelle correnti ventose in quota, a modifiche nelle rotte migratorie degli uccelli e ad altre sicure alterazioni degli ecosistemi siciliani e calabresi; non voglio ricordare il romanticismo di certe albe passate sul ponte (del traghetto) a perdersi nel blu cobalto del mare di Sicilia, o del profumo degli arancini caldi nel sole tiepido di aprile, qui voglio solo dire dello stato di dissesto idrogeologico in cui verseranno le aree che dovrebbero fare da spalla al ponte, voglio – invece - ripetere che il ponte è brutto e inutile e forse pericoloso, che è profondamente diseducativo per tutto quello che riguarda i rapporti uomo-natura, che è eticamente riprovevole e politicamente fariseo, che difende interessi di corporazione e che offre dubbi benefici rispetto agli elevatissimi costi.
E che tutto questo non dipende dalla parte politica che lo ha proposto - lo hanno fatto tutti, da Craxi a Rutelli a Prodi a Berlusconi -, ma solo da intelligenza e buon senso.

Se non avete mai saputo raffigurarvi un impatto paesaggistico negativo, immaginate un ponte lungo tre chilometri e mezzo e largo circa 70 metri lanciato sopra uno dei mari più belli del mondo e immaginate che per sostenerlo occorrono 160.000 tonnellate di acciaio arrangiato in cavi di un metro e venti centimetri di diametro.
Immaginate poi due torri enormi, alte fino a sfiorare i 400 metri (più della Tour Eiffel o dell’Empire State Building), infisse fino a 55 metri di profondità nel terreno, e che svettano rispetto alle più basse colline circostanti. 
Immaginate ancora le 100.000 tonnellate del ponte sospese a circa 65 metri di quota, ma non immaginatele immobili: il ponte infatti oscilla, liberamente, di circa 12 metri in orizzontale e 9 in verticale (nel settore centrale) per resistere ai venti che, nello stretto, possono superare i 200 km/h. 

L’unica cosa che potrebbe evitarvi di sentirsi in un flipper nella parte della pallina è che qualcuno chiuda il ponte al traffico tutte le volte che c’è vento troppo forte: cioè la struttura può resistere, in teoria, a raffiche fino a 270 km/h, ma in quei casi deve essere interdetta.
Si stima che situazioni del genere possono portare (come qualche volta accade anche sui viadotti delle autostrade per i mezzi telonati) all’interruzione del traffico per circa 50 o più giorni all’anno, e, per contro, si è certi che il traffico marittimo sullo stretto viene interrotto solo in rarissimi casi.

Ma ci sono considerazioni di carattere morale che vanno preliminarmente messe in luce. 
C’è una preoccupazione etica di fondo che non scalfisce i tecnici in senso stretto, ma che sembra importante per chi ha a cuore il mondo naturale inteso nel senso pieno del termine.

È ormai ora di tracciare un limite netto al diritto dell’uomo di imporre modifiche definitive all'ambiente che lo circonda, specie se queste hanno un impatto elevato e, in ultima analisi, danneggiano anche i sapiens. Per questo l’articolo 9 della nostra Costituzione è stato da poco integrato con concetti di questo tipo.

In altre parole chi si prende la responsabilità di unire qualcosa che la storia naturale ci presenta divisa? Chi decide che i nostri figli e nipoti dovranno accettare un’opera come quella? Quale giustizia intergenerazionale ci manderebbe assolti dall'aver modificato per sempre uno spazio naturale, storico e mitologico che poteva essere goduto anche dai nostri discendenti così come era pervenuto a noi?

Non siamo più al tempo dei Romani, che un ponte comunque lo gettavano sempre (pontefice era chi lo costruiva e lo difendeva), sono passati i tempi in cui le grandi opere erano dettate da bisogni reali e gli uomini erano ancora in pochi a vivere in ecosistemi sostanzialmente sani ed equilibrati.

E non è neppure un problema tecnologico: se lo fosse fra qualche decennio potremo sperare di unire Olbia a Civitavecchia, o - perché no - Palermo a Tunisi, restaurando quei ponti continentali che secondo i geologi del secolo scorso spiegavano le grandi migrazioni di animali, prima che si scoprisse che erano i continenti a essere andati alla deriva. Il problema è: serve un’opera come questa, oggi, in Italia?

La potente lobby di neo-futuristi e ingegneri italiani è all’opera da anni sulla questione stretto e grandi opere in genere: alta velocità, autostrade, dighe e quanto altro possa alterare il volto naturale di un paese la cui vocazione non può essere quella industriale, ma quella turistica e naturalistica, dove dovrebbe prevalere la mentalità del recupero e del riciclaggio e non dell’asfalto e del cemento.

E se solo una parte dei cittadini italiani ritenesse il ponte non solo inutile e dannoso (come cercherò di dimostrare), ma anche brutto? Chi tutela i diritti estetici delle popolazioni? Non siamo stanchi di ponti, viadotti, tunnel, autostrade il cui unico risultato è quello di incrementare il traffico su gomma?

L’entusiasmo onanistico della corporazione ingegneristica di fronte al sogno fallico del ponte è ormai palmare: si arriva a proporlo come ottava meraviglia del mondo e a paragonarlo ai più famosi ponti nord-americani di San Francisco o New York, senza curarsi dell’area metropolitana degradata da incubo che si verrebbe così a creare fra Reggio Calabria e Messina, senza studiare la realtà naturale ricca e complessa dell’area dello stretto, senza preoccuparsi del tessuto sociale.

Non parliamo poi del contesto storico e mitologico, oltre che naturalistico - ambientale, sfregiato per sempre da una spada di acciaio e cemento che cadrà in rovina in un paio di secoli al massimo.
La domanda giusta è quella che si è posta Indro Montanelli anni addietro: come si fa a non essere in disaccordo? Il concetto stesso di isola per i siciliani verrebbe così a cambiare radicalmente, con tanti saluti a Sciascia, Bufalino e a tutti quelli che dell’isola fanno anche una ragione di orgoglio, senza per questo essere separatisti. Come poi se il paesaggio statunitense – dagli orizzonti caratteristicamente smisurati – abbia qualcosa da spartire con quello mediterraneo.

Non sarà poi inopportuna la congiuntura per impegnarsi in progetti faraonici invece che in micro-infrastrutture più utili (anche se si vedono meno e dunque non arrecano consensi)? Oltretutto, in un sistema politico come quello italiano di oggi, si rischia di approvare opere come il ponte sullo stretto con risicate maggioranze politiche (anche solo locali), laddove sarebbe auspicabile un consenso almeno allargato, in modo che una modifica definitiva di una porzione di territorio non debba ricadere su un’unica amministrazione. Ma veniamo alle questioni geologiche, quelle su cui i fatti dovrebbero pesare più delle opinioni.

Riportiamo di seguito una serie di obiezioni già mosse nelle controdeduzioni al precedente progetto definitivo (nel 2013): a queste non risultano essere state destinate risposte specifiche ancora oggi, per questa ragione le riproponiamo in attesa di risposte.

1) Sismicità e terremoti caratteristici

La Sicilia nord-orientale e la Calabria meridionale sono davvero le regioni a più alto rischio sismico dell'intero Mediterraneo. A partire dal IX secolo, quest'area è stata colpita da almeno 13 terremoti d'intensità superiore al VII grado della scala Mercalli. Sul quadro geologico dello stretto di Messina esistono discordanti interpretazioni: sulla genesi stessa dello stretto è in corso da anni un acceso dibattito scientifico, e persino la faglia del terremoto del 1908 resta da definire con certezza sul versante calabrese. Si tratterebbe di una depressione tettonica tipo Graben asimmetrico, cioè con una faglia principale (master fault) molto più sviluppata delle altre antiteticamente disposte lungo il versante opposto (quello siciliano).

Si può poi discutere che il ponte sia pericoloso, ma si è certi che - in caso di sisma - sarebbe quantomeno inutile. Sono ormai più di cento anni dal più forte terremoto mai subìto, a memoria d’uomo e di pianeta, dall’intero bacino del Mediterraneo.

Reggio Calabria e Messina furono rase al suolo da un sisma (XI-XII grado della scala Mercalli) che fece oltre 80.000 morti e successivamente invase da onde di marea alte come palazzi. Siamo sicuri che il rischio di costruire una struttura del genere nella zona a più elevata sismicità del Mediterraneo sia sufficientemente basso? Reggerà un ponte che è stato commisurato a magnitudo 7,1 Richter, tenendo presente quel terremoto del 1908, visto che- non essendoci al tempo rilevamenti strumentali adatti - si tratta di una stima indiretta e che, quindi, la scossa prossima ventura potrebbe essere 7,2 o 7,5? 

Siccome la “scala” Richter è logaritmica, quella differenza apparentemente insignificante corrisponde a un potere distruttivo da 10 a 30 volte maggiore: non andrebbero rifatti i calcoli (e commisurati i nuovi costi) per adeguarlo a una magnitudo più elevata? Lo vogliamo dire ora e non dopo, visto che si tratta dell'area dove si aspetta il big-one nostrano? Che ne sappiamo che il prossimo terremoto tra Reggio e Messina sarà 7,1 e non più dannoso?

E – infine - che ce ne facciamo di un ponte che rimane in piedi se il terremoto è veramente “solo” 7,1 Richter?  Invece di unire due future aree cemeteriali - quello che diventerebbero Reggio e Messina - non sarebbe meglio spendere prima quelli e altri denari pubblici nella ristrutturazione di città che hanno solo il 25% antisismico? Quali sono le priorità dettate dal buonsenso?

Anche se non si trattasse di un unico terremoto violento tipo 1908, rimane tutta da verificare la risposta di un'opera tanto complessa e delicata ad una serie di violente scosse ravvicinate, sul modello della sequenza umbro-marchigiana del 1997 (per citarne una) e della crisi sismica calabrese del 1753, caratterizzata da cinque scosse principali comprese tra magnitudo 5,6 e 7 Richter e concentrate in un periodo di tre mesi. Recenti dati sugli eventi sismici catastrofici del 1783 hanno permesso di identificare le strutture tettoniche attive di Cittanova e di stabilire che, prima del 1783, sono state le responsabili dei terremoti del III - IV secolo d.C. che hanno fatto sentire i loro effetti fino a Reggio Calabria. Questo sistema di faglie è in contiguità sismica con le faglie di Sant’Eufemia, Armo e Messina.

Nei progetti si ammetteva che la zona fosse una delle più sismiche del mondo e che il rischio sismico è elevato, ma non si constatavano tracce di faglie attive. Il clamore di un’affermazione simile (che porterebbe alla perplessità di qualsiasi geologo) viene aggirato appoggiandosi alla teoria del terremoto caratteristico --in questo caso quello del 1908-- che avrebbe un tempo di ritorno di 1500 anni e che non permetterebbe la possibilità teorica neanche di terremoti più deboli, ma pur sempre violenti (6 - 6,6 M Richter). Ci sarebbe una sola faglia cieca (a -3000 m dal fondo dello stretto di Messina) responsabile dei sismi nella zona e le faglie in superficie non verrebbero riscontrate perché si attiverebbero solo in corrispondenza dell’attivazione di quella principale.

Tutto ciò sa di “bersaglio alla texana”: prima si spara su una parete, poi si disegna la sagoma che risulterà perfettamente scontornata. Inoltre - se si legge Ross Stein (Nature, 1995), che di terremoti caratteristici se ne intende - si trova che: “Have we become too enamoured, too comfortable, with the utility of characteristics earthquakes, and the associated repeat time for such events?” Visto che qui non ci sono osservazioni paleosismologiche da effettuare in trincea, visto che la faglia è cieca e altre non se ne muovono (se non con quella), non sarà che la teoria del terremoto caratteristico non è applicabile soddisfacentemente in questa regione?  (Conclude peraltro Stein: “Despite an eloquent defense for their existence in the preisthoric records, there is no avalanche of evidence for a concept deeply embedded in probabilistic assestements of earthquake occurrence”).

Inoltre, è importante sottolineare che nella relazione della Società Stretto di Messina sono state cartografate delle faglie attive sottomarine. L’esistenza di questi piani di scorrimento sottomarini genera grosse preoccupazioni in quanto l’attivazione delle faglie, in concomitanza di sismi anche non eccezionali, potrebbe determinare degli scivolamenti dei blocchi a valle dei piloni e potrebbe quindi mettere a rischio la tenuta del ponte.

A causa di questo aspetto così mal posto e privo di indicazioni scientifiche sicure, è lo stesso studio di impatto ambientale presentato da rigettare perché - pur ammettendo che la zona è ad altissimo rischio geologico - non si utilizzano a livello progettuale i dati che potrebbero scaturire da studi approfonditi e da monitoraggi. In definitiva la stima della pericolosità sismica è poco credibile proprio per la dichiarata impossibilità di procedere agli studi sull’attività sismica delle singole faglie. Il dubbio grave è che gli impatti non sono stati valutati in maniera approfondita per non constatare la non fattibilità del progetto.

2) Movimenti verticali

I dati dell’ENEA indicano un sollevamento differenziale del settore calabrese di circa 1,5 mm/anno contro 0,6 mm/anno di quello siciliano. Secondo i progettisti non è chiaro se si tratti di valori di spostamento continui o discreti, né se si tratti di movimenti attivi oggi; in quest’ultimo caso il sollevamento potrebbe essere acquisito anche nell’ambito di un solo terremoto; in ogni caso si sostiene che non ci sarebbero effetti sul ponte.

A questo proposito non è chiaro il meccanismo di riassorbimento dei movimenti e, soprattutto, quanto ciò influirà sui costi dell’opera. Colpisce il fatto che nessuno pensi a una rete di monitoraggio precisa e continua per un tempo di osservazione sufficientemente lungo: perché tutta questa fretta?

3) Movimenti orizzontali

I dati satellitari sui movimenti orizzontali in letteratura indicano una divaricazione fra Calabria e Sicilia che procederebbe al ritmo di 1 cm/anno: per via della tettonica delle placche i due blocchi si spostano, ma non nella stessa direzione. I progettisti sostengono che l’estrapolazione dei dati delle basi di Noto e di Matera agli interi blocchi siciliano e calabrese non è certa e che altre strutture tettoniche frapposte potrebbero smorzare quella deriva. Anche in questo caso sconcerta come nessuno pensi a una rete di monitoraggio precisa e continua per un tempo di osservazione sufficientemente lungo da fugare anche i residui dubbi: cioè il problema viene ammesso, ma non si pensa di approfondirlo.

Lo studio geologico di corredo al progetto definitivo, inoltre escludeva l’esistenza di movimenti crostali lenti, sia orizzontali che verticali. Studi recenti hanno dimostrato che tali movimenti sono tutt’ora attivi e non sono affatto trascurabili: la base bibliografica di lavoro del progetto risulta costantemente poco aggiornata.

4) Frane e scivolamenti gravitativi profondi

Dati recenti indicano la possibilità di enormi scivolamenti gravitativi profondi sul versante calabrese, con piani di taglio che possono arrivare a interessare le strutture di sostegno. Altre frane di varia entità vengono messe in luce su quel versante da molti geologi che individuano piani di taglio attivi e quant’altro.

Impiantare, a oltre decine di metri di profondità, due piloni alti quasi 400 metri e blocchi di ancoraggio enormi (per un totale di circa 500.000 metri cubi di cemento) può provocare dissesti idrogeologici e comunque non sembra essere un beneficio per il territorio. Nello scavare le fosse poi si tirerebbero fuori 8 milioni di metri cubi di terra, sabbia, ghiaia e detriti rocciosi: che ci si fa? Dove vengono portati? In quanto tempo e con che mezzi?  Cosa invece comporterebbe lo scavo è subito detto: l’alterazione completa di ogni equilibrio idrogeologico delle aree di appoggio, ivi compreso il prosciugamento del lago Ganzirri (nel messinese). La messa in sicurezza (naturalistica) del territorio non dovrebbe venire prima della costruzione di qualsiasi opera?

I progettisti sostengono che l’impostazione delle torri e degli ancoraggi sposterebbe solo 1 milione di m3 di materiale e che tale spostamento non porterà alcun dissesto; degli scivolamenti profondi ammettono molto candidamente “di non avere alcuna notizia” e, come per i movimenti, non pensano assolutamente di approfondire la cosa. Anzi: gli stessi progettisti affermano che: “le opere previste ... possono provocare fenomeni di instabilità... e la modificazione degli alvei fluviali”.

Viene al proposito ricordata la frana sottomarina di Catona del 1987, a testimonianza della possibilità che fenomeni analoghi interessino nel futuro i ripidi versanti che si trovano al di sotto delle zone dove verranno fondati i piloni del ponte.

5) Venti in quota

Se si valutano le frequenze medie annuali, risultano 32-33 giorni di vento forte o fortissimo per l’area tirrenica e 35-36 per quella ionica. Da ciò è facile ipotizzare che il ponte possa essere ogni anno intransitabile per circa un mese. È noto che la componente trasversale della velocità del vento non deve superare i 15-20 m/s per non creare problemi alla circolazione, ma qui ciò accade regolarmente per 30 giorni all’anno.

Non è poi infrequente che, nel caso di eruzione dell’Etna, le ceneri del vulcano arrivino fino a Reggio di Calabria, dove l’aeroporto risulta spesso chiuso per questo motivo. Quelle ceneri possono formare fanghiglie pericolose se piove e costituire una concausa di chiusura al traffico del ponte. Infine condizioni meteorologiche particolarmente avverse (tempeste, trombe d’aria) provocano a 70 metri di quota più problemi che a terra.

I progettisti sostengono che il ponte non sarà mai chiuso per il vento, per le ceneri dell’Etna o per incidenti nella circolazione automobilistica; inutilmente ho cercato di comprendere su quali basi si appoggino queste convinzioni.

6) Il quadro geologico

Il progetto del ponte, da un punto di vista squisitamente geologico, è carente, basato su dati vecchi e male impostato. Già nelle prime controdeduzioni ufficiali alcuni geologi, ingegneri e architetti hanno messo in luce alcuni dati preoccupanti a proposito del progetto finale:

- l’assenza di una bibliografia degna di questo nome relativa alle ricerche sviluppatesi negli ultimi dieci anni nella zona dello stretto in campi specifici di competenza;

- l’insufficienza della carta geologica (in scala 1:25.000) ufficiale di riferimento;

- la genericità anche delle carte di sussidio in cui, fra l’altro, si ammette che “la posizione delle faglie nel versante calabro è approssimata” e che, nel versante siciliano, “le faglie sono dedotte da osservazioni (unicamente) geomorfologiche”; non esiste, di fatto, uno studio mesostrutturale nell’area;

- mancano sezioni geologiche di vario orientamento;

- non c’è corrispondenza fra i dati di superficie e quelli di profondità;

- non c’è corrispondenza tra la giacitura delle faglie cartografate e quelle riportate in sezione;

- non c’è correlazione accettabile fra i terreni delle due sponde;

- non c’è analisi di giacitura dei terrazzi, né vi sono dati cronologici;

- non c’è uno schema biocronologico successivo al Pleistocene medio;

- non c’è corrispondenza tra sezione geologica dell’attraversamento e reale posizione del manufatto; non ci sono dati diretti sull’asse della sezione, né di spessori né di strutture;

- manca la documentazione originale di sostegno all’interpretazione sismostratigrafica;

- non viene quantificato l’impatto, né la mitigazione del problema liquefazione delle sabbie;

- non c’è alcuna documentazione per le faglie di superficie nelle aree adiacenti alle strutture del ponte; non sono citati studi mesostrutturali;

- non si considera l’incremento di accelerazione, in caso di sisma, derivante dalla geologia locale perché non è stato fatto un calcolo preciso degli spessori dei terreni superficiali lungo l’asse del profilo;

- non c’è alcun riferimento ufficiale ai dati sui movimenti orizzontali e verticali messi in luce dall’ENEA;

- non esiste cenno su movimenti gravitativi profondi o subsidenze;

- non sono identificate né la geometria né la tipologia dei corpi franosi;

- si afferma che le frane indotte da terremoti siano solo superficiali, ma basta uno storico per valutare che, per esempio, lo scivolamento del Monte Pacì nel 1783 avvenne proprio in corrispondenza di serie sismiche; nel progetto tale frana viene ritenuta un’eccezione, ma non si spiega perché;

- si indica che il “territorio è piuttosto stabile, privo di dissesti importanti”, ma poi si allegano carte gemorfologiche infarcite di frane di dimensioni considerevoli.

Per sintetizzare si può affermare che la stratigrafia risulta alquanto lacunosa e non priva di dubbi, ciò che lascia supporre un non adeguato rilievo sul territorio. Insomma chi guarda il dettaglio del progetto, come geologo, non può che inorridire ed è chiaro che, con tutte queste lacune, non si può accettare alcun progetto di SIA, né tantomeno di VIA.

Per fabbricare tutto quel cemento poi, ci vuole il calcare che deve venire dal più vicino possibile, che significa aprire decine di nuove cave nell’area dello stretto con sfregio ambientale irreversibile di colline e versanti, fino allo stravolgimento vero e proprio della carta topografica del rilievo esistente.

7) Idrogeologia

Anche l’analisi di questo capitolo aggiunge anziché togliere dubbi in termini di approfondimento dei rischi. Fra le risorse idriche superficiali sono state per esempio considerate le sorgenti, commettendo un grossolano errore in quanto lo studio delle sorgenti attiene ad una branca delle Scienze della Terra che è l’idrogeologia, disciplina che ha come compito specifico lo studio delle acque sotterranee.

La stima delle portate sorgentizie è stimata in difetto, in quanto sono state considerate soltanto le sorgenti ricadenti nell’area di studio (24 sorgenti), senza considerare le strutture idrogeologiche responsabili della loro alimentazione che possono interessare settori interni ed esterni alla specifica area di studio.

La stima delle risorse idriche sotterranee sfruttate tramite pozzi è stata ricavata dallo studio della SOGESID (1999) che per l’intera provincia di Messina, con appena 160 pozzi, sembra essere poco stimata e quindi alquanto aleatoria.

Nessun cenno allo stesso approvvigionamento idrico che subirebbe qualche problema dalla costruzione e imposizione dell’opera, tutto questo in un’isola in via di desertificazione dove, durante la stagione estiva, ci sono molti paesi che non hanno acqua da bere a sufficienza.

Lo studio di impatto ambientale mette in evidenza alcuni aspetti legati all’interazione tra opere di ingegneria e l’ambiente sotterraneo e superficiale senza dare alcuna indicazione certa sulle modalità di intervento per minimizzare o annullare i fenomeni conseguenti l’impatto. Ad esempio, l’intercettamento delle acque sotterranee da parte delle gallerie da realizzare, comprometterebbe il regime dello scorrimento delle acque sotterranee. Rimane non definita l’opportunità di utilizzare tali acquiferi per fini diversificati della risorsa idrica o se rimettere in falda le acque per ridurre le perturbazioni indotte al regime delle acque sotterranee.

Le perplessità geologiche, come si vede, sono parecchie e vennero già espresse una decina di anni fa in controdeduzioni specifiche cui, però non è stata mai data ragionevole risposta. Magari oggi gli studi hanno superato quelle perplessità, allora sarà il caso di ribadire le risposte che eventualmente siano sfuggite. Ma prima di iniziare la procedura e di varare un progetto esecutivo. Leviamoci ogni dubbio, intanto, prima di cominciare gli espropri.

Mario Tozzi

Mario Tozzi è Primo Ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria), si è occupato dell’evoluzione geologica del Mediterraneo centro-orientale, studiando le deformazioni delle rocce. Oggi si occupa principalmente di divulgazione scientifica e del trasferimento dei risultati della ricerca del CNR, coinvolgendo i ricercatori degli istituti di molte discipline, fino a quelle umanistiche. Dal 2006 al 2011 è stato Presidente dell’Ente Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. Dal 2013 è Presidente del Parco dell’Appia Antica. È membro del Consiglio Direttivo del TCI, del Consiglio Scientifico del WWF e del Festival della Scienza di Genova. È Cavaliere della Repubblica.